L’amore, i fantasmi e l’imperfezione: i nuovi racconti di Nadia Terranova

by Felice Sblendorio

Forse non serve capire un dolore, una città o una persona, ma semplicemente viverla, interpretarla. Il percorso che affronta Nadia Terranova nel suo ultimo libro, “Come una storia d’amore” (Giulio Perrone Editore, 114 pagine, 15 euro), parte proprio da qui: bisogna affogare in una città (che è già un destino) come Roma, nelle storie di dieci donne, nelle loro vite costrette alla malinconia per assorbire la realtà, il cielo che ci cambia, lo spazio e il tempo che ci trasforma.

Dopo due romanzi che hanno colpito la critica e i lettori per la loro purezza narrativa, “Gli anni al contrario” e “Addio Fantasmi”, finalista all’ultima edizione del Premio Strega, la scrittrice messinese ha pubblicato un libro di racconti che coinvolgono e rendono vivo uno spazio, Roma, e un sentimento, il dolore. In questo viaggio, lo sguardo del lettore diventa tutt’uno con gli occhi di queste donne che si perdono fra i mille bivi delle loro vite, fra le strade di una città che accoglie e rapisce, fra i segreti e le delusioni che, come una partitura musicale, si trasformano in un canone dell’esistenza. La bravura di Nadia Terranova, nel racconto di questi brandelli di vita sparsi e poi ritrovati, corrisponde al talento della precisione narrativa: ogni parola è esatta, ogni tratto di queste esistenze è rubato dalla realtà al momento giusto, ogni personaggio attraversa dentro di sé il cambiamento che solamente la letteratura che guarda nel profondo e oscuro pozzo di ciascuno di noi riesce a muovere e testimoniare.

C’è la vita e la quotidianità, le cose che fanno paura e l’amore, l’altra forza che tenta di comprendere e definire un tutto. In questi piccoli estratti ai confini dell’esistenza, però, c’è anche la vita della scrittrice che non abbandona mai la pagina e i temi a lei più cari, a testimonianza che di certi fantasmi non ci si libera mai: al massimo s’impara a conviverci, a stabilire una relazione che vada oltre il legame univoco che unisce l’ostaggio al suo carceriere. bonculture ha intervistato Nadia Terranova.

Da Messina a Roma c’è un abisso di distanze, sentimenti, assenze. Per conoscere una città, quindi per comprendere a fondo la sua geografia sentimentale, bisogna raccontarla?

La scrittura può essere ed è uno strumento di conoscenza: io – a volte – se le cose non le scrivo non le so mettere in fila. Non so se poi significa comprenderle: ho sempre paura di mettere i luoghi in rapporto di causa ed effetto, mi sembrano più estensioni, distorsioni, tradimenti. Forse queste tre parole sono quelle che più raccontano una geografia sentimentale.

Quanto l’ha aiutata la forma del racconto, così compiuta e secca, nell’esercizio della scrittura?

La densità fulminante del racconto mi è sempre sembrata il modo più onesto per dire certe realtà. L’interezza è una forma così irreale. Attraverso la smarginatura e la sgovernatezza della brevità per me è molto più facile anche dire “io”, e sovrapporlo a quello di qualcun altro. Scrivere racconti mi rende felice e terribilmente inquieta, insieme.

Ci sono dieci donne che testimoniano una relazione con i luoghi della sua Roma con uno stile intimo, confidenziale. Solo attraverso l’amore scopriamo chi siamo diventati al contatto con quello che ci circonda?

L’amore è conflittuale e il conflitto è quanto di più letterario ci sia, perciò sento la necessità di guardare persone e luoghi attraverso l’amore. Olga Tokarczuk ha parlato di un “tenero narratore” che tiene connesso il mondo, lo rende vivo; per me la tenerezza è il contrario dell’indulgenza, è prendere su di sé il pathos di qualcun altro senza indugi. Tokarczuk ha ragione. 

L’amore connette, ma ci sono altri temi che non lasciano mai sola la sua scrittura: la mancanza e l’ombra che proietta, la solitudine, i fantasmi che ci abitano e l’infelicità che rende la vita una somma incompiuta di parole definitive. L’unico modo per comprendere gli altri è affogare nei loro conflitti?

Quando osservo qualcuno, quando lo osservo davvero, mi chiedo due cose: di cosa ha paura e che cosa desidera. È incredibile quanto le due risposte siano limitrofe: ogni volta mi sorprendo come se fosse la prima. Vale anche per me, naturalmente. E per tutti i personaggi che racconto.

“Ma la mia vita, ora, è fra parentesi” dice la protagonista del racconto “L’ora di libertà”: ma basta lo spazio conquistato fra due parentesi per contenere l’indicibilità dell’esperienza umana?

No, non basta mai! Agli esseri umani non basta mai nulla, per fortuna. Non c’è luogo al mondo dove si sentano onnicompresi, e per paradosso finiscono spesso per cacciarsi fra parentesi. Mi piace raccontare il rapporto che abbiamo con le nostre vite come quello dei carcerati con i loro carcerieri. Non so chi sia il primo e chi il secondo, però.

Questi racconti sono intrisi di amore e tristezza, di sentimenti estremi e di pietà lieve. I Baustelle in una canzone esplicitano: “Piangi Roma, ti fa bene”. Il respiro marginale della città che ha raccontato riesce a guardarla dentro?

Io piango tutti i giorni, credo, un pochino e di nascosto, di solito. A volte di gioia, a volte di tristezza, a volte di disperazione, a volte di malinconia. Mi commuove quasi tutto. Ormai non conto più le volte che sto insegnando a un corso di scrittura, una mia allieva porta una pagina magari acerba ma straziante, e io devo scusarmi perché mi è entrato un moscerino negli occhi. Per non parlare della città. Non posso girare per Roma senza avere ricordi, sussurri, sensazioni. Per fortuna un attimo dopo torno lucida.

“La felicità esiste, ma non so se ci abiterei”, dice una delle protagoniste. L’infelicità coinvolge queste storie, ma che cos’è: un destino oppure un processo quasi in divenire al quale, per scelta, non riusciamo a opporre resistenza?

Accade, come la felicità. Le mie protagoniste si interrogano proprio da un punto di vista lessicale sull’una e sull’altra. Quando sono infelici è perché sono state molto felici prima.

Sul non detto, su quello che le parole possono fare o meno, c’è molto in questi racconti. Precious in “Sapphire” fa dire alla sua protagonista: “Con le lettere fai le parole e con le parole puoi fare tutto”. C’è qualcosa che queste donne non riescono a fare con le parole, con l’atto del nominare o del riconoscere?

Veronica, in “Freezing” non riesce quasi a parlare, le sue emozioni sono congelate. L’io narrante del “Primo giorno di scuola”, invece, impara l’ebraico come una lingua sconosciuta e nuova, per imparare un lessico, un universo. Le parole sono una sfida, sempre.

In esergo si cita “Passaggio in ombra” di Mariateresa Di Lascia. In quel libro l’autrice scrive: “Il futuro, invece, è questo tempo incompiuto che ci aspetta, inesorabilmente simile a noi: a ciò che siamo stati, e a quello che saremo”. Le protagoniste abitano la soglia del divenire, della trasformazione: si accede al tempo del futuro tramite la perdita?

L’esperienza della perdita è di per sé trasformativa. Sai come definiva Di Lascia la scrittura? “Un vuoto dove passa ogni cosa”. Significativo.

In questo vuoto, allora, che cosa significa scrivere: rubare l’imperfezione alle cose, ai luoghi, alle persone e idealizzarne l’essenza?

Rubare l’imperfezione sì, sempre. Ma idealizzare solo in senso platonico: tendere manchevolmente all’idea. Anche (soprattutto) all’idea dell’imperfezione.

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