L’amore non riconosce l’autorità: la bellezza di “Almarina”

by Felice Sblendorio

Le isole sono così da sempre: separazione dal reale, solitudini plurali. Elisabetta quando arriva nell’isola dell’isola di Nisida, il carcere minorile, lasciandosi alle spalle la luce addormentata di Napoli, lo capisce subito. Nonostante i ragazzi che si baciano sui muretti a poca distanza dal penitenziario, intuisce realmente che un’isola è una somma, un’addizione sentimentale di più emarginazioni.

Elisabetta ha cinquant’anni ed è vedova, ogni giorno prima di entrare a Nisida per insegnare matematica ricorda a se stessa il suo cognome: nel carcere sull’acqua bisogna sempre ricollocarsi, riposizionarsi, difendersi. Il suo cognome è Maiorano, e forse alla fine lo sa perché è capitata lì, in quel posto dove i minori vanno e vengono, dove è più semplice (e giusto) arrivare che andare via e farsi risucchiare dalla città che si riappropria di ognuno di loro: elementi singoli di un futuro in parte già deciso.

Elisabetta è la protagonista di “Almarina” (Einaudi, pp. 136, € 17,00), il nuovo romanzo di Valeria Parrella, autrice partenopea, drammaturga e attivista italiana. In quasi centoventi pagine, scritte con la forza di una prosa naturale e limpida, la Parrella ci prende per mano e ci porta con lei in una storia meravigliosamente umana dove il dolore, il destino, il passato che ritorna e ci possiede sono elementi centrali della storia. Un libro fatto di sofferenze e ripartenze, come la vita che lavora per aggiungere o sottrarre.

Valeria Parrella

A Nisida, però, non ci si può sottrarre. Chi oltrepassa l’inferno del penitenziario per ricominciare e costruire speranze deve convivere con lo sguardo dei detenuti e conquistarsi la loro fiducia. Elisabetta lo sa: “siamo come ci guardano”. E lei è proprio come la guarda Amarina, quel che resta di una ragazza romena di sedici anni, picchiata e stuprata da suo padre in Romania e ora nel penitenziario, il luogo dove ogni sbarra, paradossalmente, è per lei una costola di libertà. Sin da subito scatta qualcosa: l’amore non conosce autorità e Almarina chiede implicitamente ad Elisabetta di darle il senso di cui ha bisogno, il suo senso di mondo.

“Voi che giudicate siete disposti a credere ai colpi di fulmine, ma altre forme d’amore improvviso vi mettono in sospetto. Le amicizie sembrano maliziose, l’amore per i discepoli riverbera di paternalismo e l’ammirazione profonda per gli anziani pare sia coperta da chissà quale mancanza nascosta nel passato. Volete che l’amore proceda per gradi, vorreste intravederne un percorso lineare, giudicare, morbosi, tutto. Invece no, non si guarda: il cuore è opalino e gli esami di coscienza sono per gli infelici. Io mi sono legata ad Almarina così, mentre guardavamo il mare, e le ho raccontato che mio marito era un magnifico nuotatore”.

Quello che non è più presente nella vita non esiste più: ritorna come un eco nelle pagine del libro. Sembra proprio così per le due protagoniste che cercano nelle ferite ancora aperte che il dolore ha lasciato sui loro corpi la forza per sopravvivere, ricominciare, trovare una luce che illumini il resto. Ricominciare insieme, come quelle pagine scritte dal destino che realizzano l’incontro giusto. E lì c’è poco da fare: non c’è carta, tribunale o autorizzazione che tenga. Il prendersi cura reciprocamente è un gesto che non chiede permesso.

“Perché c’è una cosa che continua a essere sfuggente, e non ve la dirà nessuno ad alta voce, così adesso ve la dico io: l’amore non riconosce l’autorità. Sì, formalmente sì, ci siamo costretti: ma dentro le ossa, quando ci guardiamo le rughe allo specchio, o della verità del sonno, non vi concediamo il diritto di decidere. Vi seguiamo con un unico punto fermo davanti a noi: che quando avremo ritrovato la strada che ci porta al mare, daremo fuoco a tutta questa carta e ci riscalderemo alla sua fiamma”.

Valeria Parrella, toccando il tema delle adozioni e degli affidi, della libertà privata come unica salvezza alla predestinazione, dei lutti, della speranza e della vita che si spezza nei punti più profondi, riesce ad indagare magicamente i mille aspetti della vita umana, portando il lettore a cambiare prospettiva, visione. Non c’è artificio o arroganza, ed è questa una delle caratteristiche che dona una preziosa luminosità a questo libro: l’autrice racconta quello che la vita ci mette davanti, nulla di più della potenza e della tragicità insita nei dolori e nelle felicità di ognuno di noi. Non serve nessuna struttura, proprio così come succede con la grande letteratura quando ci difende dalle offese della vita come sosteneva Pavese ne “Il mestiere di vivere”. Alternando un registro intimo e politico, che unisce lacrime e cuore, “Almarina” racconta la capacità di ricominciare, di mettersi in discussione, di sfidare il proprio destino per farselo assomigliare un po’ di più. Le parole di Elisabetta e Almarina, così limpide e precise, per il lettore diventano un sentiero: camminarci su, ora, non dà più dolore.

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