“L’amore resta, l’amore non sparisce mai”: Idda di Michela Marzano

by Felice Sblendorio

Se è vero che i grandi romanzi sono sorretti da una domanda potente, l’ultimo di Michela Marzano conferma questa regola e, se è possibile, va anche oltre: “Idda” (Einaudi Stile Libero, 240 pagine, euro 17,50) è per la filosofa italiana, trapiantata da più di vent’anni a Parigi e attualmente professore ordinario di filosofia morale presso l’Université Paris Descartes, voce autorevole del pensiero intellettuale francese ed editorialista del quotidiano “la Repubblica”, il tentativo riuscito di stabilizzarsi nelle forme e nelle libertà narrative del romanzo.

Conosciuta ai più per il suo memoir “Volevo essere una farfalla. Come l’anoressia mi ha insegnato a vivere,e per alcuni saggi che hanno diviso il dibattito pubblico come “Papà, mamma e Gender”, la Marzano ritorna nelle librerie con una storia che centra e anima più interrogativi esistenziali: chi siamo quando pezzi interi della nostra vita scivolano via? Che cosa resta di noi?

Resta l’amore a salvarci, come cantava Lucio Dalla in “Henna”. Paradossalmente, resta l’amore, alla fine, a spiegare il dilemma primordiale, che agita e muove la filosofia e il fuoco narrativo più denso dell’autrice che continuamente si chiede: “chi sono, chi siamo?”. Cosa siamo e cosa crediamo di essere. In questa storia, che tocca l’identità, la memoria e le relazioni, la protagonista Alessandra riuscirà a rispondere a questi interrogativi e ritrovare il suo Io più vero, privato dell’azione dal suo passato, solamente dopo un confronto intimo con sua suocera Annie, affetta da una malattia neurodegenerativa. bonculture ha intervistato Michela Marzano.

Partirei dal genere scelto: una filosofa che scrive un romanzo. Serve più raccontare che argomentare determinate cose quando si parla di sentimenti, di condizioni dell’essere che, come dice Alessandra sul finale del libro, sembrano non avere molto di coerente?

Dopo tanti saggi, in questi ultimi anni ho deciso di consacrarmi alla scrittura letteraria. Mi sono infatti pian piano convinta che, attraverso un romanzo, si riesce a parlare dell’esistenza e degli affetti in modo molto più profondo. In fondo, scrivere un saggio è semplice: c’è un’ipotesi, c’è una struttura, c’è un andamento logico-argomentativo, ci sono i riferimenti bibliografici. In un saggio, tutto torna. Quindi bene quando si vuole dimostrare qualcosa e portare avanti un ragionamento coerente. Col rischio, però, di lasciare da parte tutto ciò che nella vita non torna e non può quindi essere spiegato o argomentato. In un romanzo è tutto molto diverso. È scrivendo che pian piano emergono i sentimenti, le contraddizioni dell’esistenza, gli insuccessi e le speranze. Tutto ciò che, in fondo, costituisce il tessuto delle relazioni umane. In un romanzo non si tratta di spiegare, ma di mostrare, di raccontare, di sorprendersi, a volte, di fronte alle azioni e alle dichiarazioni dei propri personaggi. Ed è solo quando si mostra e si racconta che si riesce poi anche ad esplorare quelle zone d’ombra dell’umano sentire che la saggistica, spesso, si limita a sfiorare.

Questo è un romanzo di fiction, però ci sono una delicatezza e una passione nel trattare questo argomento davvero singolari. Perché questa storia?

Dietro questa storia c’è il tentativo di rispondere ad alcune domande che da anni mi frullano per la testa: che cosa resta di noi quando pezzi interi della nostra esistenza scivolano via? chi siamo quando non ci ricordiamo più il nostro nome, non riusciamo più a riconoscerci in uno specchio, e anche il viso delle persone più care si appanna? Sono anni, dicevo, che cerco di trovare una risposta a queste domande. Anni che penso, con terrore, al momento in cui potrei essere io a non sapere più chi sono e come mi chiamo. Poi, qualche tempo fa, la mamma di Jacques, mio marito, si è ammalata di Alzheimer, e il dramma della memoria che pian piano si sbriciola è entrato nella mia vita, costringendomi a cercare le parole giuste non solo per raccontare il dolore di un figlio che non si rassegna alla perdita della mamma – nonostante la madre di Jacques fosse ancora viva, negli ultimi tempi non era più in grado di badare alle proprie cose, aveva bisogno di tutto, non era più la stessa persona di prima – ma anche e soprattutto per nominare la dolcezza infinita dei sorrisi di mia suocera, che non ricordava quasi più nulla, certo, ma che nonostante tutto continuava a vivere e ad amare. È così che è nato il mio ultimo romanzo: da quest’urgenza e da questo bisogno. 

Il passato è il protagonista che agisce di più nella narrazione: c’è chi l’ha perduto e chi l’ha nascosto. Si può diventare “orfani del proprio passato” oppure è il nostro tutto, e siamo suoi?

Il punto di partenza del romanzo è l’idea che ognuno di noi è sempre e solo il frutto del proprio passato, è impastato di memoria, sa verso dove dirigersi soltanto perché si ricorda da dove viene. Poi, lavorando sul tema della perdita della memoria, ho capito che la realtà umana è molto più complicata, e che anche quando pezzi interi della nostra esistenza scivolano via, restano comunque dei “residui di sé”.

Nel suo “Idda”, lei pone domande e ragiona su cosa succede quando la memoria ci abbandona, quando progressivamente allenta la sua protezione. Cosa rimane di noi da quel momento in poi?

Quando Alessandra discute con la dottoressa Brun e le chiede cosa resti di Annie, la madre del suo compagno, ora che Annie non riconosce quasi più gli oggetti e le persone, pensa di essere ancora una bambina e non ricorda nulla del marito o del figlio, la dottoressa le risponde che anche allo stadio più avanzato di una malattia neurodegenerativa, quando i centri fisici della memoria sono quasi del tutto distrutti, rimane la percezione di quello che accade, rimane l’affettività. Ecco perché, anche se è dolorosissimo per un figlio o una figlia non essere riconosciuti dalla madre o dal padre, non si dovrebbe mai dimenticare che in queste persone resta un sentimento di familiarità, a tratti ineffabile, a tratti indescrivibile, e che però, nonostante tutto, perdura, e va ben al di là della malattia. 

Un gesto meccanico come svuotare casa di sua suocera e un viaggio in Salento, alle radici del suo trauma, permetterà ad Alessandra di fare i conti con quello che ha sempre voluto chiudere, occultare. È  un movimento catartico quello che la condizione di Annie smuove in Alessandra?

È proprio così. Idda è la storia di due donne che, rispecchiandosi l’una nell’altra, ritrovano pian piano, forse anche inconsapevolmente, ciò che avevano perduto nel passato. Alessandra è una giovane donna italiana che ha lasciato la propria terra per fuggire da un’infanzia dolorosa: è arrivata in Francia, ha deciso che l’unico modo per sopravvivere era cancellare la memoria del passato, e quando incontra Pierre gli spiega che in Salento (dove è nata e cresciuta) non tornerà mai più. Annie è francese, è nata nel 1927 e, dopo aver cercato di emanciparsi diventando nel 1945 segretaria stenodattilografa, sposa il suo capo e mette al mondo Pierre. Quando Annie si ammala di Alzheimer e Pierre viene sovrastato dallo sconforto – no, non è vero che mamma ha l’Alzheimer, dirà un giorno ad Alessandra; la dottoressa non ha mai utilizzato questa parola, ripeterà più volte nonostante la madre abbia iniziato a confonderlo col padre e col marito, e non sia più in grado di badare da sola a se stessa – sarà Alessandra a occuparsi di lei e a sentirsi nuovamente figlia. Inizialmente Alessandra pensa di essere lei a poter fare qualcosa per questa donna. Poi realizza che, nonostante la malattia, è proprio Annie a salvarla, costringendola non solo a fare i conti col proprio passato, ma anche a tornare in Italia.

Le ombre del passato di Alessandra si nascondono soprattutto nei suoni e nelle parole della sua lingua, il dialetto salentino. La lingua è una madre generatrice che non ci dimentica mai?

È attraverso il racconto della storia di Annie che Alessandra riuscirà a riaprire lentamente il cassetto dove aveva nascosto la propria infanzia. Dopo aver fatto di tutto per dimenticare le proprie radici, sono le parole della propria infanzia che riemergono. Sentendosi di nuovo figlia, Alessandra ricorda di quando sua madre la chiamava “puricina”, ricorda il padre che le recitava i versi di Leopardi in dialetto salentino, ricorda le frasi pronunciate da Totò, il fattore dei suoi genitori, il giorno in cui i suoi avevano avuto un incidente automobilistico, e pian piano sente nascere in lei l’esigenza di tornare in Salento e fare i conti con la propria storia. Ecco perché il romanzo si intitola “Idda”, “lei” in dialetto salentino. È grazie a Idda, grazie ad Annie, che Alessandra recupera la lingua della propria infanzia e  ricomincia a vivere senza più essere “agita” dal passato.

Un tema che Alessandra non riesce a comprendere è come si possa passare dal bianco al nero più totale, come possa un essere umano accettare pacificamente il proprio decadimento. Questa è materia attualissima: perché abbiamo sempre più paura di essere inermi di fronte al tempo che opera e muta?  

La questione della vecchiaia è molto delicata. Il passare inesorabile del tempo è una realtà, ma siamo in tanti a rifiutare anche solo l’idea che, pian piano, non saremo più in grado di cavarcela da soli: invecchiare significa diventare fragili, dipendere dagli altri, non poter più essere in grado di fare tutto da soli. Ciò detto, anche in Italia sono ormai tanti coloro che vivono quotidianamente la realtà della demenza senile o dell’Alzheimer dei propri genitori o comunque di una persona cara. Quando gli amici mi chiedevano di cosa parlasse il libro che stavo scrivendo, e io dicevo loro che raccontava la storia di una donna che si ammalava e perdeva progressivamente la memoria, ho scoperto che ognuno di loro aveva conosciuto o conosceva da vicino qualcuno affetto da demenza senile o da Alzheimer. E che, in fondo, ognuno di loro aveva non solo sperimentato il dolore immenso che si prova quando una madre o un padre non ti riconoscono più, ma anche acquisito pian piano la consapevolezza dell’importanza fondamentale del proprio passato.

La vita, come testimonia Annie, sul finale trova la sua essenza più pura. Quanta apparenza scompare nelle persone affette da malattie neurodegenerative?

L’apparenza scompare del tutto, e queste persone si ricentrano, in fondo, sull’essenziale. Certo, non sono più esattamente le stesse persone di prima: sono meno attente, meno precise, meno efficienti, meno autonome. Ma in quel “meno” si cela forse l’essenziale della vita. I sentimenti e l’affetto. La familiarità. L’amore. Come dirà a un certo punto del romanzo la dottoressa Brun ad Alessandra, l’unica frase che non scompare mai è “ti amo”: a lei lo ripetono spesso i suoi pazienti, anche quando dell’amore non ricordano più nulla, come se solo l’amore potesse ancora tenerli in vita. L’amore resta, anche quando l’oblio ce la mette tutta per cancellarlo: l’amore non sparisce mai. E questo è più che sufficiente per dare coerenza a ciò che, di coerente, non sembra avere molto.

Lei, con il tempo, ha trovato l’essenza più pura del suo Io, trattando e curando le ferite del suo passato. Che persona ha ritrovato quando con il suo dramma personale ha fatto realmente i conti?

Diciamo che ho trovato una persona fragile, insicura, piena di incertezze. Una persona di cui, in fondo, dovevo imparare a prendermi cura. La mia storia, da questo punto di vista, è diversa da quella di Alessandra, nonostante l’esistenza di tratti comuni. Anch’io, quando sono arrivata in Francia fuggivo da un passato scomodo, complicato. Anche io ho utilizzato il francese per rielaborare attraverso un’altra lingua quegli episodi della mia infanzia che in italiano erano troppo dolorosi. Poi però, a differenza di Alessandra, a me l’Italia è sempre mancata moltissimo. E ancora oggi, nonostante siano passati ormai vent’anni da quando sono venuta a vivere e lavorare a Parigi, mi sento spesso sradicata, talvolta è come se mi mancasse la terra sotto i piedi… Altra differenza fondamentale tra me e Alessandra è il rapporto con il mondo: Alessandra è una biologa vegetale, ama l’ordine e cerca di tenere tutto sotto controllo. Non ammette che qualcosa possa sfuggirle di mano, è ossessiva, talvolta anche maniaca. Io invece “navigo a vista”: ho imparato a mie spese che sono poche le cose che si possono davvero controllare e allora accetto che qualcosa accada, anche se magari non è esattamente ciò che vorrei.

I due protagonisti, Pierre e Alessandra, sono agitati dalla paura dell’assenza, della perdita. Come si sopravvive all’assenza?

Forse capendo che manca sempre qualcosa a chiunque di noi. Come scrisse un giorno Camille Claudel in una lettera al fratello: c’è sempre qualcosa di assente che mi perseguita. Ecco, io trovo che in questa frase si celi una delle definizioni più belle della condizione umana.

*Foto a cura di Eleonora Rappezzi per “Scrittura Festival. Ravenna. Lugo”. 

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