L’avventura di Giovanni Truppi lungo la costa italiana: «L’esperienza di questo viaggio è stata meno creativa, ma mi ha calato nel presente»

by Felice Sblendorio

In un’estate di mezzo, dominata ancora dal contagio, Giovanni Truppi è andato alla ricerca della vita. «Non avrò altre occasioni, nel corso della mia esistenza, di vivere di nuovo quello che sto vivendo oggi», scrive consapevole dell’irripetibilità delle condizioni di questo viaggio nelle prime pagine. In camper, dopo aver caricato il suo pianoforte smontabile, il poetico cantautore napoletano durante l’estate delle illusioni del 2020 ha percorso il confine naturale della costa italiana, da Ventimiglia a Trieste. Gli appunti di questi quaranta giorni di viaggio, secchi nella prosa ma densi nel sentimento, vengono pubblicati ora in un romanzo di esterni e di descrizioni inusuali, fra il nostalgico e il sognante. “L’avventura” (La Nave di Teseo, 224 pagine, 17 euro) è il primo libro di Truppi, cantautore di un’intimità del reale che ha colpito tutti dai suoi primi lavori fino all’ultimo fortunato disco “Poesia e civiltà”, segnalato dal quotidiano “Le Monde” tra i migliori dischi dell’anno 2019. bonculture ha intervistato Giovanni Truppi.

L’avventura” è un diario di viaggio, un libro di paesaggi, una collezione di esterni. Quando ha sentito la necessità, dopo il primo periodo Covid, di varcare i confini della casa?

In realtà avevo maturato questo progetto precedentemente a quello che tutti noi abbiamo vissuto. Mi ha sempre affascinato l’idea di raggiungere tutto il perimetro della costa italiana. Pasolini ha fatto questo viaggio negli anni ’50 e ha scritto “La lunga strada di sabbia”, mentre Michele Serra l’ha fatto negli anni ’80 e l’ha raccontato in “Tutti al mare”. Io ho aspettato il momento giusto per fare questa esperienza e, quando si è aperta una finestra più serena dopo la primavera del 2020, ho pensato che potesse essere il momento giusto.

Scrive: «Ho cercato di fare una cosa in cui difficilmente riesco in condizioni normali, e cioè immergermi nei posti e nei momenti in cui mi trovavo, e osservarli». Non si direbbe sia un cattivo osservatore.

Uno che scrive canzoni ed esplora i sentimenti, al di là delle valutazioni di merito, in effetti dovrebbe essere una persona che guarda, osserva, che è capace di fare questo. Scrivendo canzoni, però, si ha già un punto di vista che va più verso l’interno che verso l’esterno. Oppure non per forza verso il presente o una vicenda che è successa, un pensiero che c’è stato. Siamo allenati a scandagliare quello che cerchiamo di descrivere. L’esperienza di questo viaggio, invece, è stata meno creativa, più vicina alla cronaca che all’arte. Mi ha dato l’opportunità di calarmi nel presente in un modo che non accade spesso nella vita di tutti i giorni perché, quasi tutti, siamo sempre proiettati o nel passato o nel futuro, ma difficilmente nell’oggi. Io non pratico la meditazione, ma questa cosa qui – ovvero stare nel tempo presente come ho fatto in questo viaggio – credo sia la cosa più vicina alla meditazione che io abbia fatto nella mia vita.

Nelle sue canzoni il lavoro di scavo è dentro di sé, mentre in queste pagine osserva e tenta di comprendere i luoghi, i volti, i paesaggi. Qual è stata la difficoltà maggiore di questo cambio di prospettiva?

Da un certo punto di vista è riposante questo cambio di prospettiva. Lo sforzo creativo procura degli altri e bassi. Quando scrivo le canzoni ho dei momenti di grande frustrazione perché è una ricerca complicata, non so precisamente dove andare. Allo stesso tempo la ricompensa di gioia creativa è molto alta. In questo caso questa incertezza era minore perché non dovevo inventare nulla. La difficoltà l’ho ritrovata quando ho dovuto ricomporre tutti gli appunti che avevo preso durante il viaggio.

Racconta che, soffermandosi, la realtà appare più poetica e pregna. Osservare, nel profondo, è un esercizio, una pratica?

Sì, assolutamente. Se ho capito bene cosa sia la meditazione, credo sia questa cosa qui: osservare ed essere il più possibile nel momento presente. Sembra una cosa semplice, oppure astrusa, invece è una cosa molto pratica.

Quante cose ci perdiamo non coltivando l’attenzione?

Non saprei. Oltre questa esperienza, che aveva un obiettivo lavorativo, credo di aver vissuto in un modo che considero ordinario. Non so quante cose ci perdiamo, anche perché essere cavati nella realtà minuto per minuto ti impedisce di avere una progettualità lunga. Se dovessi ogni giorno osservare quello che succede senza potermi astrarre, credibilmente avrei un problema opposto.

Le canzoni portano all’astrazione?

Questa è la contraddizione delle mie pulsioni. Da un lato può essere gratificante e costruttivo mantenere e aumentare il livello dell’attenzione, dall’altro lato c’è una parte di me che conosce bene l’abbandonarsi ai pensieri senza volere. Oltre alla proiezione nel futuro e nel passato, c’è semplicemente una voglia di astrazione. Chi ne ha fatto un lavoro comprende che è una cosa bella, una cosa che appartiene all’uomo.

Nella canzone omonima che accompagna l’uscita di questo libro canta: «Che c’era io non lo so raccontare, lo posso soltanto sfiorare». C’è qualcosa che non è riuscito a rendere nella scrittura di questo viaggio?

No, ma non perché non ritenga che ci siano mille difetti nel libro che ho scritto. Credo che quello che ho raccontato confina in parte con quello che ci metto nelle canzoni, ma poi è una cosa diversa, che non avrei sicuramente raccontato in musica. Non ho questo tipo di rimpianto.

Lei è nato a Napoli e in queste pagine si percepisce una prossimità sentimentale con il Sud, con il Meridione. Direi con una certa idea di Sud.

Il Sud che emerge è un posto diverso dalle altre parti del Paese. Quella che racconto non è un’Italia divisa in due, ma in più pezzetti diversi. Sicuramente emerge una fascinazione sia per i paesaggi che per l’umanità, ma allo stesso tempo anche una presa di coscienza dolorosa per una condizione di trascuratezza che, molto spesso, si percepisce muovendosi sul territorio. Da persona che è nata in un posto del Sud, poi, questa cosa provoca un dispiacere maggiore.

S’interroga sul rapporto che lega la gente alla bellezza dei luoghi in cui abitano. È un rapporto di influenze reciproche?

La bellezza naturale, purtroppo, non sono sicuro che abbia un’influenza sulle persone. Anzi, quando qualcuno se la ritrova la vive come un’abitudine, così anche la cosa più meravigliosa perde di senso. Credo molto, invece, nel fatto che la bellezza costruita e portata dall’uomo abbia dei risvolti nelle modalità di convivenza fra le persone e fra le persone e il territorio. Questo rapporto crea o meno bellezza, cultura e influenza.

Il mare, in queste pagine, è un elemento ricorrente. Dichiarate un obiettivo: non abbandonare mai l’orizzonte del mare. Per lei il mare che cos’è: una bussola, un richiamo?

Il mare mi fa pensare alla mia infanzia. Ed è qualcosa con cui diventando adulto mi sono confrontato sempre meno. Il mare è qualcosa di familiare, ma oramai anche qualcosa di molto distante.

Definisce il contagio e la pandemia un «disastro muto». Si è riuscito a spiegare cosa ci è successo?

È molto difficile per me rispondere a questa domanda. È una domanda che mi pongo spesso: non in continuazione perché cerco sia di comprendere che di reagire, di immaginare un futuro. C’è contemporaneamente in me una grande energia che a volte è reazione mentre altre volte è rimozione, ma non mi è ancora chiaro quello che abbiamo vissuto.

Più volte ha detto che la musica è la sua coperta, la sua protezione. È riuscita a ripararla durante questa tempesta?

Spero di risponderle fra un po’ di tempo. Quello che ho fatto, in una maniera abbastanza poco pensata e quasi inconscia, è stato dedicarmi ad altro. Ho avuto la fortuna di lavorare al progetto del libro che mi ha tenuto lontano dalla musica per un po’. In maniera sotterranea continuavano a scorrere, ma solo negli ultimissimi giorni ho preso le redini di queste mie canzoni. Mi sono chiesto: questa cosa mi avrà fatto bene o male? Non posso ancora dirlo.

Le parole, più della musica, rivelano il lato profondo della sua produzione. Qual è la parola che ha riscoperto in questi mesi?

Nulla di originale, ma ho riscoperto la parola morte. Credo che la morte sia il grande rimosso di questa nostra epoca. Rifiutando la morte, come cantano I Cani, quello che noi facciamo è allontanarci dalla vita. Aver riscoperto questa parola, con tutto il carico ancestrale che porta con sé, è una cosa che sento vicina alla mia sensibilità, al mio immaginario.

Ascolteremo canzoni che parleranno di morte, dunque.

Non vorrei che fosse la stella polare dei miei prossimi lavori: mi sembra un po’ troppo.

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