Le cinque domande sull’Italia di Paolo Pagliaro: «La nostra sorte è nelle mani dell’informazione: noi decidiamo in base a ciò che sappiamo»

by Felice Sblendorio

Ogni sera, da quattordici anni, il giornalista Paolo Pagliaro racconta l’attualità in una manciata di minuti nella rubrica conclusiva del talk show di Lilli Gruber, “Otto e Mezzo”. Il suo punto, negli anni, è diventato una bussola per comprendere e decifrare le ombre e le luci di un Paese inquieto e sfibrato come il nostro. Con evidenze, dati e interpretazioni, Pagliaro indaga e mostra le questioni e i grandi problemi strutturali dell’Italia. Questo metodo, così rigoroso e onesto, è alla base anche del suo ultimo libro, “Cinque domande sull’Italia” (il Mulino, 208 pagine, 16 euro). Dall’emergenza demografica all’economia e il lavoro, dall’ambientalismo alla rete, Paolo Pagliaro raccoglie piccoli frammenti dal grande puzzle del dibattito pubblico per offrirci una mappa ragionata e seria sul futuro (poco luminoso) del nostro Paese.

bonculture, in occasione del suo intervento in programma sabato 9 luglio a Pesaro per “Popsophia”, il festival diretto da Lucrezia Ercoli che fa della filosofia l’indagine del contemporaneo, ha intervistato Paolo Pagliaro.

Pagliaro, le risposte alle sue cinque domande compongono un ritratto amaro dell’Italia. Perché è un Paese «impermeabile alle sollecitazione della storia»?

Viviamo in un eterno presente, abbiamo una memoria selettiva che non si spinge oltre il nostro vissuto. Ci raccontiamo di essere stati il volto buono del totalitarismo novecentesco; invece, in diverse porcherie abbiamo anticipato i nazisti. Ci immagiamo buoni, ma abbiamo una politica migratoria tra le più feroci. Potrei continuare.

Un Paese contraddittorio dove i poveri aumentano, i ricchi crescono, le disuguaglianze avanzano e si trasformano in esclusioni.

Sì, poiché aumentano sia i ricchi e sia i poveri, il risultato è che aumentano le disuguaglianze. In questo siamo un Paese molto coerente.

Scrive che peggio del populismo è lo spopolamento. Perché è così drammatica l’emergenza demografica? Il terribile impatto economico sarà inevitabile?

Quarant’anni fa in Italia vivevano quindici milioni di bambini e adolescenti. Adesso sono dieci milioni. I pensionati, che erano un quarto della popolazione, adesso sono un terzo. In questa forbice che tende ad allargarsi c’è l’emergenza demografica, minaccia più insidiosa di qualsiasi crisi economica perché ne promette una strumentale e irrimediabile, quando i pochi non basteranno più a garantire le pensioni e le cure dei molti. È una tendenza che si può invertire incentivando la natalità e governando l’immigrazione.

L’ascensore sociale si è rotto e il lavoro non è più la nostra ricchezza. Due temi che si incrociano?

Si incrociano e si alimentano a vicenda. In Italia uno resta quello che nasce, i passaggi di classe sono molto rari. Nella scuola chi abbandona o chi è bocciato appartiene in genere a famiglie povere. Il sistema industriale è di tipo familiare e le aziende, come le case, si ereditano. C’è un’imposta di successione ridicola. E il lavoro diventa una variabile sempre meno decisiva.

Parla di ceto medio che non sogna più di governare il mondo ma di aprire un b&b in case ricevute in eredità. Quanto possono durare queste rendite?

L’immagine del b&b è del sociologo Giuseppe De Rita, che come sempre coglie la sostanza del problema. E la sostanza è che in una società costantemente più anziana sarà sempre più difficile produrre nuova ricchezza. Aggiungo che meno siamo, più il debito peserà su ogni singola testa. Nel lungo periodo tutte le priorità ci danno in grave difficoltà, ma la tendenza si può invertire. A questo dovrebbe servire il Pnrr.

Il Pnrr, appunto, che sarà il banco di prova per le classi dirigenti di questo Paese. Ma saranno all’altezza della sfida?

Vedo molto entusiasmo e crescenti competenze in chi è chiamato a gestire questa montagna di soldi in arrivo dall’Europa. Il governo e i ministeri sono attrezzati, le regioni e i comuni stanno imparando in fretta. Ci sono alcuni centri di monitoraggio – due per tutti; quello di Cottarelli e quello di Openpolis – che consentono di seguire quasi in tempo reale lo svolgersi dei lavori. La transizione energetica e quella digitale sono naturalmente idee-forza: ma se ci si muove verso il traguardo, prima o poi lo si raggiunge.

L’anno prossimo, dopo una legislatura complessa, si andrà al voto. Crede che queste emergenze faranno parte di un programma di Governo? Perché la politica oramai è incapace di incidere sulle crisi e sui cambiamenti in atto?

La politica fa sempre più fatica perché i partiti sono sempre meno presenti nella società. E, dunque, sono privi di un reale mandato, non colgono istanze, non soddisfano bisogni. È tutto un orecchiare, un rincorrere i sondaggi, un investire nello storytelling o nei social. Il partito come educatore collettivo (parolona, ma appropriata) ha cessato da tempo di esistere. Ora va a rimorchio. La differenza la fanno i leader, alcuni molto capaci. Ma i loro destini, in assenza di radicamento, sono fragili. Può succedere così che il partito più votato alle elezioni del 2018 oggi praticamente non esista più.

Scrive che la nostra sorte è nelle mani dell’informazione. Perché?

Perché noi decidiamo in base a ciò che sappiamo. Se le informazioni di cui disponiamo sono false, le nostre decisioni saranno sbagliate. Se leggo che le vaccinazioni anti-Covid possono provocare l’autismo (cosa assolutamente falsa), difficilmente farò vaccinare mio figlio. E se leggo che siamo i soli a sostenere il peso dell’immigrazione, diventerò sovranista. Poi magari tornerò a essere europeista quando scoprirò che, in realtà, la Germania ospita – in percentuale e in numero assoluto – molti più richiedenti asilo di noi. E anzi, che in Europa quasi tutti i Paesi ne ospitano più dell’Italia.

Qual è la sua definizione di giornalismo? Che cosa dovrebbe fare il giornalismo, oggi?

Selezionare i fatti che meritano di diventare notizie è l’essenza del giornalismo, di ogni forma di giornalismo. Per tutti, quelli in prima linea e quelli nelle retrovie, la parola chiave è, dunque, selezione. Ad essa se ne affianca un’altra, la sua gemella, che si chiama responsabilità. Ed è l’esercizio, o se preferite la dote, che si richiede a un professionista; mentre non è richiesto al produttore dell’informazione digitale “disintermediata”, che infatti gode di varie forme di irresponsabilità, che vanno dall’anonimato all’impunità penale. Un altro requisito è la competenza. Spesso è utile la specializzazione. È indispensabile la capacità di usare in modo appropriato le parole, e dunque la scrittura. O le immagini. Infine, è decisiva l’adesione a un codice etico, che non ha bisogno di essere messo nero su bianco, anche se nella nostra professione non mancano le carte deontologiche. L’insieme di queste, chiamiamole soft skills, crea la reputazione, che è la dote principale di cui dispone un giornalista, quando ne dispone.

Quale deve essere, invece, la responsabilità dell’informazione in questi tempi di guerra?

Se parliamo di Ucraina il giornalista deve avere ben chiaro chi è l’aggredito e chi è l’aggressore. Ma poi deve raccontare ciò che vede e ciò che sa, senza chiedersi se ciò che racconta corrispondere all’interesse nazionale.

In molti, nel corso delle ultime stagioni televisive, hanno evidenziato l’inadeguatezza dei talk show italiani. Ma i talk sono davvero i contenitori adatti per un dibattito pubblico maturo?

Lavoro per un talk da quattordici anni e sarebbe davvero curioso che adesso prendessi le distanze. Ci sono naturalmente trasmissioni di orientamento diverso, conduttori più o meno capaci, ospiti più o meno attendibili. Ma finora, per approfondire l’attualità, non è stato inventato un format migliore del talk. Certo, avendo le risorse e il pubblico della Cnn, si potrebbero avere talk con meno parole e più immagini, ma resta il fatto che un talk senza parole o senza discussione non è un talk.

È giusto far parlare e ospitare tutti senza distinzioni, gerarchie, competenze specifiche?

Magari si potesse far parlare tutti. Gli esclusi sono la stragrande maggioranza e, in generale, a noi spettatori dispiace solo quando tra gli esclusi ci sono quelli che la pensano come noi.

Ogni giorno per “Otto e Mezzo” realizza la sua storica rubrica, “Il punto”. Come nasce?

Mi guardo intorno, leggo, ascolto. E penso che se qualcosa interessa me, può interessare anche gli ascoltatori. In generale evito di occuparmi di politica, anche se talvolta non si può proprio farne a meno. Insomma, è tutto molto semplice.

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