Le interviste di Lucio Dalla: l’ultima «grande lezione di umanismo pop»

by Felice Sblendorio

Ci manca Lucio Dalla. A nove anni dalla sua scomparsa, le canzoni del cantautore bolognese risuonano ancora forti nella nostra memoria, nel nostro ascolto quotidiano popolato da Nuvolari, fagiani e quaglie, Sonni Boi e la sua donna fortuna, Anna e Marco.

Per ingannare il tempo, nel tentativo di ricordare e percepire ancora l’eco della voce di uno degli artisti più eclettici che il nostro Paese abbia avuto, ci si può immergere nella lettura di un prezioso volume: “E ricomincia il canto” (il Saggiatore, 376 pagine, 22 euro), una raccolta delle più interessanti e originali interviste di Dalla curata dal musicologo Jacopo Tomatis. In queste pagine, fra lo «sforzo dei poeti e dei mezzi giornalisti» come cantava in Ciao, Dalla racconta e si racconta, inventa e crea, millanta e confessa, ridisegnando dialogo dopo dialogo la sua biografia artistica e personale e le sue idee sull’arte e sul mondo. Cambia idee Dalla, quasi sempre: come la sua musica, che accompagna il sentimento collettivo e le mode, trasformando idee e generi. C’è il suo mondo in questi dialoghi, e il mondo che lo circonda: mai uguale a se stesso, ostile alla specializzazione come punto conclusivo di un percorso, ammaliato e compiaciuto dall’affetto del pubblico. Un uomo normale e un artista geniale, interessato a comunicare un messaggio, nel tentativo complesso di arrivare alla gente tramite le sue storie in musica: così dirette, democratiche e poeticamente popolari. bonculture ha intervistato Jacopo Tomatis.

E ricomincia il canto” raccoglie molte interviste di Lucio Dalla. Più che interviste, però, sembrano gli appunti preparatori di un grande racconto sulla sua vita. Dalla trasforma, inventa, aggiunge dettagli in questo materiale che sfuma i contorni fra giornalismo e la fiction. Queste interviste cosa ci raccontano?

Raccontano moltissimo dell’artista, e pochissimo dell’uomo – o viceversa? In realtà, credo, queste interviste dimostrano la grande voglia di piacere, di arrivare che Dalla aveva. Prese tutte insieme rivelano la sua insopprimibile natura di narratore, di millantatore: Dalla si contraddice, racconta versioni diverse della stessa storia, cambia idea su persone e cose. Ma questo ce lo rende molto uomo: non è certo il cantautore-genio, coerente e tutto d’un pezzo, che si affida a interlocutori privilegiati per la narrazione del sé più intimo. Dalla ha parlato di tutto, con chiunque volesse parlargli. Le interviste rispecchiano questa voglia di raccontarsi, anche.

Non cambia quasi mai, nell’arco temporale preso in considerazione, l’ampia riflessione sulla funzione comunicativa della sua musica. Il pubblico è stato la sua grande ossessione?

Sì, “comunicazione” e “pubblico” sono le parole che ricorrono di più nelle sue riflessioni, e di nuovo non è necessariamente quello che ci si aspetta da un cantautore. Dalla non si è mai preoccupato molto di “fare arte”, o di presentarsi come qualcuno che riversa nelle sue canzoni la sua essenza più privata e geniale. Al contrario, si interroga di più su chi quelle che canzoni le ascolta, le ama, le usa per fare cose. È una grande lezione di umanismo “pop”, credo.

«Per fare canzoni amate dalla gente, bisogna amare la gente» afferma nel 1977. Dalla, però, non ha amato solo la gente: ha amato anche le loro passioni, i loro sentimenti, la loro quotidianità. Questa prossimità emotiva è stato il successo del suo linguaggio?

Andare verso la gente non significa abbassarsi, non significa svilire la propria proposta musicale. Al contrario: è questo ciò che rende il pop quello che è. Dalla era pop perché sapeva rispecchiarsi nel suo pubblico, così come il suo pubblico sapeva rispecchiarsi in lui.

Nel profondo è stato un artista sincero?

Che cosa significa sincero? Sincero verso chi? Verso se stesso? Verso chi gli stava intorno? Verso il suo pubblico? E poi, è importante che un artista sia sincero? Difficile dirlo. Dalla è stato un grande, un meraviglioso contaballe, un trickster, uno che di sé costruiva una immagine complessa e allegra e che – come tutti – probabilmente nascondeva un’intimità diversa e inattingibile. Per fortuna, aggiungo.

In questi dialoghi cambia spesso opinioni sulla religione, sul successo, sull’amore, sulla politica, sulle sue città amate. Chi o cosa cambia? Lucio o il contesto, le tendenze, l’interlocutore, il tempo che vive attorno?

In alcuni casi, un po’ tutte queste cose: ad esempio, sul suo rapporto con Roversi. Dalla cambia idea diverse volte: prima lo ama, poi lo odia, poi lo rispetta, poi lo ama ancora… e questa è una conseguenza del tempo che passa, della maturità, degli scazzi che si sedimentano. Altre volte invece Dalla si cela: è il caso della religione, che appare nelle interviste dopo gli anni “politici”, anni in cui per un cantautore impegnato sarebbe difficile rivelarsi come devoto di Padre Pio. Altre volte ancora, invece, è semplice voglia di raccontare, di infiorettare un aneddoto a uso dell’intervistatore o del pubblico.

Per molti era un bugiardo creativo. Sulla genesi e la storia di 4/3/1943 si è cimentato in un continuo lavoro di autofiction?

Questo sì, è un ottimo esempio! Ogni tanto esce un’intervista a qualcuno che cambia ancora una volta la storia della canzone, che Dalla stesso ha raccontato in mille modi diversi. Però, la “verità” non è molto importante, alla fine. Il modo in cui ascoltiamo 4/3/1943 è anche incrostato di tutte queste narrazioni, che fanno parte del mito che Dalla ci ha costruito intorno, consapevolmente o meno.

Due delle parole più ricorrenti nelle sue canzoni sono futuro e domani. Un rapporto con l’avvenire – come afferma lui stesso – «divertito, interessato, forse un po’ infantile». Cosa rappresentava, nel suo processo creativo, il futuro?

Dalla insiste moltissimo sul futuro e a più riprese afferma: «il passato non mi interessa». L’evoluzione del suo stile si spiega anche così, in relazione a questa convinzione profonda che sembra accompagnarlo per tutta la sua carriera. Anche in studio di registrazione, Dalla cerca sempre la novità, lo strumento nuovo, l’idea che viene dall’America. È stato un grande ascoltatore di musica nuova, e nel libro lo rivela a più riprese (dai Nirvana a Paul Simon), e raramente si è rivolto al suo passato, ai suoni della musica precedente o alle sue vecchie produzioni.

In un Paese come l’Italia che, da sempre, ha un problema irrisolto con il pop, Lucio Dalla è riuscito a unire influenze alte e basse, sonorità ricercate e popolari, invenzioni poetiche e ballate scanzonate. Il «suono Dalla» è la ricetta pop ideale?

Il «suono Dalla» in realtà è cambiato moltissimo negli anni. Dalla faceva il beat quando andava di moda il beat, ha fatto il prog negli anni con Roversi, quando intorno erano tutti ritmi strani e suite strumentali, è passato alle canzoni su due accordi negli anni della new wave, e poi ancora alle batterie elettroniche, ai sintetizzatori. Dalla è sempre andato dove andava il gusto di massa, mettendoci sempre un po’ di Lucio Dalla. Non è la ricetta ideale, credo: è la ricetta di Lucio Dalla. Per lui ha funzionato!

Nell’ultimo periodo, invece, ha incrociato passioni e produzioni diverse, minori: regie, opere, collaborazioni, spettacoli teatrali, libri. Questa produzione poco esplorata cosa rappresenta?

Gli ultimi anni di Dalla forse sono ancora troppo vicini per valutarli complessivamente. Danno l’impressione di una grande bulimia creativa, che si manifesta anche – inutile negarlo – in quelle che ci appaiono come cadute di stile. Però Dalla è così, e va accettato per quello che è. Da un musicista che passa da una regia d’opera al sabato sera con Sabrina Ferilli ci si può aspettare qualunque cosa!

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