“Le Madri Nere” di Patricia Esteban Erlés, l’alchimia gotica dello spirito natalizio e lo spazio domestico come una gabbia per la donna

by Agnese Lieggi

“Hay cosas encerradas dentro de los muros que, si salieran de pronto a la calle y gritaran, llenarían el mundo”.
Federico García Lorca

Le madri nere, scritto da Patricia Esteban Erlés, tradotto in lingua italiana da Sara Papini, edito da Cencellada edizioni, evoca intensamente La casa de Bernarda Alba di Federico Garcia Lorca, non per analogia diretta con la drammaturgia, tantomeno con la storia, ma in quanto ad una verosimile somiglianza fra il personaggio principale dell’opera, Bernarda Alba, che si ritira e impone un lutto rigido e opprimente per otto anni alle sue cinque figlie, vietando loro di uscire di casa e Priscia la più terribile delle sorelle che dirige l’orfanotrofio di Santa Vela, una donna avvolta nell’ardore del fanatismo ideologico, dove la dedizione a Dio si intreccia con il castigo del corpo e dell’anima.

Tutto il dramma di Bernarda Alba si svolge così all’interno di una casa dalle pareti bianche, simbolo di purezza e severità, così come in Le madri nere, l’imponente struttura di Santa Vela è un organismo vivente, il peso della descrizione degli spazi, l’altissima qualità del racconto di Patricia Esteban Erlés si deve quasi allo stile sinistro, gotico e allo stesso tempo fantastico di ciascuno degli ambienti del convento.

L’intera narrazione sembra intrisa dalla maledizione inflitta alla vedova Corven, la quale si libera dal quel suo enorme peso trasformando la sua immensa dimora, luogo di orrore, in un orfanotrofio in cui vengono rinchiuse un gruppo di orfane, accumunate da destini oscuri e torbidi e da suore algide e cattive, madri distopiche, che rendono il soggiorno delle bambine un incubo.

I personaggi sono cupi, con storie drammatiche, quasi lynchiani, come le gemelline siamesi Lavinialea, Moira la bambina dalle mille morti e Mida che riporta alle atmosfere di Pedro Páramo di Juan Rulfo verso l’irreale, il fantastico e il realismo magico attraverso descrizioni che inneggiano i colori viola e nero, animali tetri come il sauro nero e il corvonero messaggero

Con l’autrice Patricia Esteban Erlés, abbiamo l’opportunità di approfondire origini, ispirazioni e suggestioni di Le madri nere.

Cosa si annida dietro l’ispirazione che ti ha fatto affrontare un tema così oscuro ed emotivo legato alle “madri” nella tua opera?

Posso affermare che la mia ispirazione sia nata da una concomitanza quasi simultanea tra il reale e fantastico. Tempo fa vidi un documentario in televisione sulla congregazione religiosa delle Maddalene. Quest’ordine religioso, nell’Irlanda cattolica, rinchiudeva in convento giovani donne presumibilmente ribelli o smarrite, a volte per tutta la vita. Le famiglie lasciavano lì le loro figlie per vari motivi, tutti molto discutibili. Ricordo il caso specifico di una ragazza che fu violentata da un cugino durante una festa, per nascondere la vergogna, la consegnarono alle suore. Altre volte si trattava di adolescenti ribelli o giovani donne che volevano lavorare e non essere ridotte al ruolo di casalinghe e madri di numerosi figli. Il destino era sempre lo stesso: le smarrite, le Maddalene che prendevano il nome dalla peccatrice biblica che lavò i piedi di Cristo, finivano tra quattro mura, condannate a pulire i loro presunti peccati.
Le suore abusavano di loro, sia psicologicamente che fisicamente, così come facevano altri lavoratori, come sacerdoti o medici, mentre le ragazze vedevano scorrere i migliori anni delle loro vite lavando a mano biancheria di ospedali, hotel, ecc., a beneficio della congregazione. Mi sembrò un chiaro esempio di ingegneria del male, poiché le donne erano manodopera gratuita; alienate, si arrendevano e accettavano con rassegnazione quella vita di privazioni e umiliazioni, la mancanza di libertà e il distacco dal mondo esterno. Tutto ciò avveniva in una Europa presumibilmente civilizzata, non nell’oscura e remota età medievale, dato che l’ultimo dei conventi fu chiuso negli anni Novanta del XX secolo. Questa storia mi ha fatto riflettere sul potere arbitrario, sulla dittatura implacabile di chi detiene l’autorità e non la amministra con giustizia e umanità.
Il riferimento fantastico è legato a Shirley Jackson, un’autrice che ammiro molto per la sua concezione dello spazio domestico come una gabbia per la donna, per l’animismo che sa trasmettere a un ambiente familiare, trasformandolo in qualcosa di estremamente sinistro. Mi ispira spesso, la sensazione di claustrofobia, il concetto di una terribile maledizione che spesso emana dalle case nei suoi racconti e romanzi. I suoi personaggi femminili sembrano sempre intrappolati tra le quattro pareti della casa che dovrebbe essere loro rifugio. Ho letto nell’introduzione di uno dei suoi romanzi, “La maledizione di Hill House”, che lei credeva fermamente che gli edifici in cui viviamo siano esseri dotati di una propria vita sinistra. Cambiava di strada quando passava davanti ad una casa a New York, affermando che era malata, che era malvagia. Nell’introduzione ho scoperto la storia della casa Winchester, l’insidiosa e intricata dimora eretta dalla vedova del fabbricante di fucili. Questa dimora fu concepita per sfuggire agli spettri delle vittime mietute dall’efficiente fucile a ripetizione brevettato dal defunto marito, impiegato nelle battaglie contro i nativi indiani e durante le guerre civili. Riflettevo sulle due storie, quella di giovani innocenti e condannate, intrecciata con quella della casa sinistra, che avrebbe dovuto offrire loro rifugio e serenità. Immaginavo che potessero convergere, dando vita a una metafora del potere che avvelena l’animo umano e lascia sul suo cammino vittime innocenti, spesso sepolte ancora in vita, soffocate nel silenzio.

Ti piacerebbe condividere qualcosa con noi, sul processo creativo che ti ha portato a scegliere il titolo del tuo libro?

Desideravo giocare con il simbolismo del colore nero, opposto al bianco, che identifica le suore che compaiono all’inizio del romanzo. Esse mostrano un fervore educativo, desiderose di aiutare e proteggere le orfane, di insegnare loro a leggere e a trovare il loro posto nel mondo. Ho ritenuto opportuno sottolineare che la religione ha spesso custodito la cultura e contribuito a trasmetterla, così come ha protetto e curato, dimostrando compassione per i più deboli. Pensavo alle donne e agli uomini delle missioni, ai monaci che trascrivevano opere antiche nei monasteri per preservarle dall’oblio.
In contrapposizione, emergono altri religiosi, altre religiose, che placano nel loro esercizio della fede una sete insaziabile di potere, perpetrano una crudeltà insopportabile e credono di avere il permesso di tormentare e soggiogare gli altri. Il settarismo, il fanatismo totale, la dedizione di un amore cieco a un dio arbitrario caratterizzano le madri nere che giungono a Santa Vela e spazzano via ogni bontà e speranza delle madri bianche, come una piaga.

Potresti svelare un momento chiave o una scena specifica del tuo libro che ritieni fondamentale per comprendere la storia e le complessità che affronti in relazione al tema oscuro?

Forse il momento in cui un narratore in terza persona si avvicina al personaggio di Dio, il sovrano e signore del mondo, e svela che semplicemente si annoia immortale, che gioca con noi perché non ha nulla di meglio da fare. Dio è un re negligente, un capo annoiato, una fusione di tutti gli dei di varie religioni. È lussurioso come Zeus, irato come Yahvé, una fusione iperbolica di difetti che ho concepito a nostra immagine e somiglianza, simili a quelli che caratterizzano noi esseri umani.

Esistono autori, opere o eventi in particolare che abbiano influenzato significativamente la tua prospettiva nella creazione del tuo romanzo sulle madri?

Certo. Nella mia opera ci sono molti omaggi a autori e autrici che ammiro profondamente. I libri del mio romanzo sono condannati a morire affogati, proprio come quelli di Ray Bradbury bruciavano in Fahrenheit 451, a rappresentare la cecità di un mondo in cui la cultura, che illumina e ci apre finestre attraverso la letteratura, brucia o marcisce sul fondo di un lago, condannando uomini e donne all’oscurità. C’è un accenno anche alla grande Ana María Matute, antesignana del micro-racconto in Spagna con il libro del 1956, “Los niños tontos”, in cui parlava con tutta la bellezza e la poesia del mondo della morte nell’infanzia, della solitudine dei più fragili. Ci sono omaggi a Lorca, poiché Priscia è una sorta di Bernarda Alba che sottomette altre donne e cancella la gioia dalle loro vite, così come per l’Orlando di Virginia Woolf, sembrando anche un personaggio androgino, segnato da un’ambiguità sessuale che la rende un essere tormentato. E, naturalmente, a Shirley Jackson, già menzionata, e alle sue case meravigliosamente crudeli con i loro abitanti.
*Traduzione dell’intervista a Patricia Esteban Erlés a cura Maria Agnese Lieggi

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