Le sette morti di Evelyn Hardcastle: quindici misteri in una magione in rovina

by Francesco Berlingieri

Stuart Turton
Le sette morti di Evelyn Hardcastle
(Neri Pozza, 526 pagine, 18 euro)

Stuart Turton ha una faccia in bilico tra il nerd inemendabile e il co-protagonista di una commedia romantica ambientata tra Londra e New York. Ha degli occhiali dalla montatura poco vistosa, è appassionato di tecnologia, viaggia e racconta viaggi per alcune riviste d’Oltremanica. L’anno scorso ha dato alle stampe il suo primo romanzo: Le sette morti di Evelyn Hardcastle.

Io l’ho finito ieri. E, dopo aver letto l’ultimo rigo e chiuso il tomo, ho pensato di sentirmi spaesato. Ho avvertito l’irrinunciabile bisogno di riordinare le idee, di rimettere a posto i quadri sparsi, gli indizi perduti sul cammino. Mi ci ero, del resto, abituato all’esercizio. Il testo in questione ti costringe a farlo dalla prima pagina. Da quando un uomo disperso in un bosco invoca il nome di Anna. Ignorando chi sia. E chi sia Anna.
Un esordio delirante, un brutale rompicapo, una beffa della logica. Un libro scritto magnificamente in cui ogni cosa è al suo posto. Ed ogni cosa è rovesciata.
Un libro di cui devi raccontare il minimo. Perché ogni dettaglio potrebbe rivelarsi un potenziale spoiler. Quel che si può dire è che Blackheath House è una dimora extraurbana. Una dimora vittoriana, o elisabettiana. Una residenza di campagna, con tanto di scuderie, casa del giardiniere, laghetto e cimitero. Una casa immersa in un bosco, in un’epoca novecentesca mai ulteriormente specificata. Blackheath House è una mappa in prima pagina, con tanto di didascalie e ruoli dei personaggi. È il luogo di un mistero. O di due. O di quindici misteri. Di sicuro è il luogo un omicidio avvolto nelle tenebre e sormontato dai fuochi d’artificio. Il luogo della morte di Evelyn, affascinante ed algida figlia della potente schiatta degli Hardcastle, proprietari della magione in rovina.

Un omicidio complesso, che smuove la memoria del luogo e delle genti, come la terra di una profanazione. A cui fa seguito un meccanismo di indagine che si basa sul perverso gioco della rimozione. Già. Perché Evelyn non muore una volta soltanto. Evelyn muore ogni giorno. Alla stessa maniera, alla stessa ora, con la stessa arma. Ed ogni giorno si ripete, apparentemente identico a sé stesso, dal sorgere del sole al tramonto. I personaggi, persi nel loro inesplicabile ripetersi, finiscono per assomigliare ai loro lettori. E Turton, quel nerd, si tramuta nel Deus ex Machina di attori e spettatori, l’uomo al quale affidarsi completamente, senza remore, lungo cinquecentoventi pagine di surreale poesia. Una storia di incastri, dove il tempo si piega indocile agli artifici degli uomini; dove i parametri saltano e i punti di riferimento diventano fragili.

Detto tra noi, penso che – dopo Le sette morti di Evelyn Hardcastle – Stuart Turton si trovi nello stesso fortunato imbarazzo dei Guns n’roses dopo Appetite for destruction. Dovesse concedere un bis, saremmo dinanzi ad un gigante della sceneggiatura psicanalitica.

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