Le sorelle Maria Rosa e Savina Pilliu, due donne sole contro la mafia. Con il loro “Io posso”

by Daniela Marcone

La storia delle sorelle Maria Rosa e Savina Pilliu, e della loro madre Giovanna, di origine sarda ma residenti a Palermo, mi era già nota quando ho iniziato a leggere il libro di Pif e Marco Lillo, dal titolo “Io posso. Due donne sole contro la mafia”. Un titolo che pone in prima battuta l’affermazione io posso, una frase che ha un significato forte, spiegata poi dagli autori ma in realtà espressa dalla loro stessa scelta di raccontare questa storia e destinare i diritti d’autore del libro a sostenere le due sorelle nel loro percorso di richiesta di giustizia.

La storia di Maria Rosa e Savina è una storia di aggressione decisa e costante da parte di persone molto vicine ad ambienti mafiosi, ma anche di un’ingiustizia talmente grave da generare incredulità, da indurre l’interrogativo: è accaduto realmente tutto questo? Ebbene sì, è tutto vero. Così come è reale il coraggio e la volontà di queste donne di resistere prima alle proposte di acquisto relative a due casette davanti al Parco della Favorita a Palermo, di loro proprietà, che all’improvviso diventano molto appetibili, e successivamente, quando gli interessati passano alle “maniere forti”, a perseverare nel proteggere quanto appartiene loro. Questo racconto ci mette alla prova, ci porta a chiederci quale strada imboccheremmo se ci trovassimo di fronte al muro di omertà e ingiustizia che è stato elevato sul cammino delle sorelle Pilliu.

È estremamente importante raccontare alcune storie, proteggerle dall’indifferenza dello scorrere di un quotidiano che spesso ci fa camminare a testa bassa, senza guardare quanto accade intorno a noi. A maggior ragione quando, oltre alle mostruosità criminali, nella parte finale del percorso le due sorelle si ritrovano anche a gestire un’ingiustizia che un pezzo di Stato pone in essere nei loro confronti, applicando semplicemente la legge che, nel funambolico dipanarsi di questa vicenda, si configura, nella particolarità della fattispecie, come un nemico e non come alleata (come in realtà ci si aspetterebbe).

Tra i tanti passi percorsi, persone incontrate e denunce presentate alle autorità competenti, Maria Rosa e Savina hanno incontrato anche il giudice Paolo Borsellino, ben quattro volte, proprio nel 1992, in quelle settimane che intercorsero tra la strage di Capaci (23 maggio) e quel terribile 19 luglio in cui, in via Mariano D’Amelio, Borsellino stesso fu ucciso, insieme alle persone che gli facevano da scorta, a causa di un violento attentato posto in essere da Cosa Nostra. Di questi incontri, nel corso dei quali Borsellino le ascoltava attento, prendendo appunti (sull’agenda rossa?), nonostante le gravi preoccupazioni che senza dubbio pesavano su di lui, le sorelle hanno serbato un ricordo importante e consegnarlo alla nostra memoria oggi assume un significato particolare, in quest’anno che segna il passaggio del trentennale dalle stragi del 1992 in Sicilia.

Oggi Maria Rosa non c’è più, mentre Savina continua a lottare per entrambe, per le loro casette, ma anche, ne sono convinta, per una coerenza di comportamento e di valori a cui non può abdicare. Dopo aver letto l’ultima pagina del libro, mi sono ritrovata profondamente affezionata alla loro vicenda umana e ho iniziato a seguire tutte le notizie che le riguardano, pensando che occuparmi, per quanto mi sarà possibile, di questa storia è importante. Sono profondamente convinta che l’affermazione della giustizia, come valore ma anche come corollario dello stesso diritto alla vita, inteso sia come diritto all’esistenza fisica che in quanto possibilità di affermarci come persone, è impegno che appartiene a tutte e tutti, nessuno escluso. Sostenere il percorso di questo libro ci permetterà di essere accanto a Savina, a Maria Rosa e a Giovanna, provando insieme a scrivere, finalmente, un lieto fine per questa storia.

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