Le streghe che comandano di Chiara Tagliaferri: «Sono diventata adulta quando sono riuscita a perdonarmi»

by Felice Sblendorio

Se il travestimento funziona maledettamente bene, come recita Jean Rhys in epigrafe, la protagonista può diventare chi vuole: strega, angelo, carnefice, vittima, povera, ricchissima. In queste alternative contrapposte, ma piene di possibilità, si muove la protagonista di “Strega comanda colore” (Mondadori, 252 pagine, 19 euro), il primo romanzo di Chiara Tagliaferri, autrice radiofonica e coautrice con Michela Murgia del fortunato podcast “Morgana”.

Nella Bassa Padana, provincia profonda, si sviluppa questa favola nera che Tagliaferri incendia con un ritmo incalzante e con una (finta) sincerità violenta e luminosissima. Non importa quanto ci sia di vero o ingigantito: i temi che l’autrice scandaglia sono gli aspetti più profondi che ci illudiamo di poter controllare per una vita intera. Non è mai così, ovviamente: il terrore e la cattiveria, il desiderio e la fuga, la tenerezza e il potere implodono sempre in maniera inaspettata. Come nelle vite di queste donne, finalmente streghe: la nonna che ricatta tramite i soldi, la madre che cura i morti e i vivi, la protagonista che combatte la morte e il terrore con gli oggetti, i vestiti e il luccichio. bonculture ha intervistato Chiara Tagliaferri.

Strega comanda colore” è un romanzo di liberazioni: dai morti, dai vivi, dai luoghi, dal passato.

È il mio esorcismo con cui ho riscattato i vivi e i morti dando una sepoltura a chi non mi ero concessa di salutare. Vargas Llosa dice che gli scrittori sono esorcisti dei loro demoni: è proprio così. La protagonista di questa storia sente su di sé un’eredità di maledizioni, ma per riuscire ad andare avanti deve affrontare il proprio passato. Per farlo si trasforma in una portatrice di incantesimi che scioglie le briglie di chi ha tenuto sotto scacco chi amava. È una storia violenta, che riscatta, ma che può anche ferire.

Che cosa ha voluto riparare con questa storia?

La protagonista dice: mio fratello è un angelo di gesso. Al cimitero dei bambini parla con Giuseppino, il fratello che non ha mai conosciuto, e stringe l’urnetta che contiene le sue ossa. Lei è una traiettoria interrotta, il peccato di una preistoria emotiva pesantissima. Chiede al fratello di essere liberata, di fuggire. Ha paura di essere colpita in modo irreparabile: parla alle ossa per non diventare anche lei un mucchietto di ossa.

La scrittura ripara il dolore oppure lo amplifica?

Lo ripara. Ogni scrittore quando consegna qualcosa alla pagina lo trasforma in finzione. I ricordi, poi, sono una distorsione e una manipolazione della realtà. Io volevo recuperare la mia memoria perché avevo dei buchi. Nella mia famiglia, come in tante altre, si racconta poco quello che ferisce o fa male. Il dolore viene nascosto, accantonato. Ci si illude in questo modo che deflagri in maniera più attutita, ma è nel non detto che si generano i mostri. Avevo un bisogno particolare di ricordare.

In che modo?

Ritrovando i colori di questa storia. La fotografa Nan Goldin aveva una sorella che si è uccisa sdraiandosi sui binari. Racconta di essere diventata una fotografa dopo questo episodio violentissimo. In famiglia non se ne parlava, perché il guaio è sempre di chi resta, non di chi va via. Lei è diventata una fotografa perché stava sparendo il ricordo di sua sorella: non voleva perdere i colori e le forme dei corpi. Io ho cercato di fare la stessa cosa con la scrittura.

Questa è una storia familiare. Ma per lei che cos’è una famiglia?

È un nucleo da cui è indispensabile affrancarsi. La profanazione è il sacrilegio necessario per tornare. La famiglia, poi, è soprattutto sangue: i legami invisibili e tutto quello che ci si passa attraverso il silenzio. Nella mia famiglia l’amore c’era, ma lo dovevi intuire perché non era mai verbalizzato. Imparare ad amare è stata la scommessa più difficile che abbia fatto su di me: io mi sono costruita un alfabeto emotivo tutto mio.

Come?

Attraverso i libri, i film, le canzoni. Da piccola avevo un sacco di amici immaginari. Quando una storia mi parlava aggiungevo gli amici immaginari a quelli reali e mi costruivo un esercito con cui mi muovevo, armata di una nuova emotività, nel mondo.

Scrive che «si passano molte cose dal sangue». È un’illusione, dunque, l’emancipazione?

L’autodeterminazione non è un’illusione e il processo di liberazione è la nostra possibilità di ritrovarci. L’artista Mariko Mori ha detto: «Cerco di dimostrare che i sogni fatti su di me non sono lontani dalla direzione in cui sto andando». Questa è l’autodeterminazione. Fin quando non sciogli le briglie dell’infanzia, però, sarai sempre legato alla famiglia, al sangue. Nulla è insuperabile, ma ci devi lavorare tanto. E la psicanalisi aiuta molto, come insegna Woody Allen.

Cosa c’entra in questa storia Pietro Maso?

La protagonista scrive una lettera d’amore a Pietro Maso. Lui viene dalla provincia e ha ucciso i suoi genitori perché voleva più soldi. Commette questo delitto ferocissimo con alcuni amici: loro durante l’omicidio indossano una maschera da diavolo, mentre lui li uccide a volto scoperto. Perché, secondo me, almeno in quella occasione voleva essere visto. Lei vorrebbe fare qualcosa di simile con chi fa del male a chi ama, ma non ci riesce fino in fondo.

Come ci si ferma? Non tutti si affrancano dalla famiglia come Maso.

Non si riesce quasi mai a cambiare la propria famiglia, ma si può cambiare il modo in cui hai interiorizzato il legame con loro. Bisogna trasformare quel legame in qualcosa di simbolico, sennò diventi un assassino o una persona con idee scellerate. La protagonista scrive a Maso, a cui il vuoto ha scavato dentro, perché riconosce nel suo cuore qualcosa di spaventoso. Vorrebbe trasformare il mondo in un inferno per far vivere al mondo intero l’inferno che ha vissuto.

La violenza, però, non distrugge indistintamente?

Tennessee Williams ha scritto che la violenza deliberata è imperdonabile. Maso ha dato una risposta agghiacciante sulla possibilità di avere un figlio. Ha detto: non potrei mai perché mi ucciderebbe, non come ho fatto io, ma guardandomi. Io vedrei il mostro che lui vede in me.

In opposizione alle tenebre in questa storia c’è un amore, Nicola. Che riconosce la protagonista e la ricompone. Una forma di amore magico?

Ho ricalcato l’amore della protagonista sull’uomo che ho più amato nella mia vita. Quell’uomo si chiama Nicola, come mio marito, un uomo che io definisco portatore di pensiero magico. Lui ripara i morenti ma anche i viventi. Nicola nella vita reale ha la sicurezza di poter tenere insieme le cose: probabilmente è riuscito nella realtà a tenere anche me. Ma non credo che l’amore ti salvi: il lavoro principale non è delegabile, lo devi fare tu.

In questi rapporti la bellezza passa attraverso la sofferenza, il sacrificio, la rinuncia.

Scavo a fondo nella solitudine. I miei protagonisti si aggrappano a delle scialuppe di salvataggio: soldi, bellezza, vestiti. I soldi sono potere, controllo. I vestiti, invece, sono la possibilità di essere chiunque tu voglia: sono dei travestimenti e delle promesse di vita.

Queste scialuppe, però, sono considerate devianti.

Sì, il superfluo è considerato traviante, pericoloso. In casa se entravano delle cose belle venivano messe via, sennò si rovinavano. È un mondo che va in malora per il non utilizzo: ci si prepara alla morte, non alla vita. La protagonista per sfatare questa maledizione decide che utilizzerà la bellezza per salvarsi: il denaro non sarà mai rispettato, ma utilizzato. Si sente in credito con la vita e vuole riscuotere quel credito.

Si pensa alla morte quando ci si illude di non essere all’altezza della vita?

La paura ti fa acquattare ai bordi della vita, ma ci sarà sempre qualcosa che scapperà dal tuo controllo. Bloccandoti immobilizzi solamente l’esistenza, perdendo scommesse su di te. La missione della protagonista è spostare sempre più in là l’orizzonte della sua paura.

In questo libro si passa da «prima di me» a «quarantadue anni»: ma c’è un passaggio o un momento che fa diventare grande la protagonista?

Scavalchiamo la linea d’ombra quando ci diamo la possibilità di perdonarci e di perdonare. La comprensione e il perdono riescono a far maturare la tenerezza. Sono diventata adulta quando sono riuscita a perdonarmi.

Nella quarta di copertina lei è ritratta in un luna park: le ombre e le luci si rincorrono. Nella sua storia quando arriva la luce?

È un romanzo pieno di ombre e di luci. Goethe diceva che dove c’è più luce il buio è più nero. Penso che sia così. La luce, prima o poi, arriva. E arriva quando puoi raccontare qualcosa e sei in grado di guardarla e di contenerla con le parole. Le tue.

Lei è rimasta la bambina affamata di bellezza, vestiti, soldi?

Si rimane affamati per tutta la vita. Proust diceva che spariti gli dèi restano solo gli oggetti. Sono un’accumulatrice: gli oggetti e gli abiti sono i miei talismani. Si combatte la morte anche con gli oggetti.

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