L’elogio della terra di Byung-Chul Han contro l’oscenità della guerra

by Giammarco Di Biase

E’ uscito il 10 febbraio per Edizioni Nottetempo il nuovo saggio di Byung-Chul Han con il titolo Elogio della terra- Un viaggio in giardino con 24 illustrazioni di Isabella Gresser, artista berlinese che ha all’attivo anche opere da regista. Un saggio nettamente separato dai suoi più comuni a cui ci ha abituato, filosofo sterminato, prolifico, che proprio due giorni prima dell’uscita di questo suo fatidico canto, questo suo poetico farsi giardiniere, era ritornato con Einaudi a farsi entomologo per dissezionare la nostra epoca con il saggio filosofico su “come abbiamo smesso di vivere il reale”: Le non cose.

Docente di filosofia e Teoria dei Media, coreano trapiantato, insegna Cultural Studies all’Università di Berlino, scrive di globalizzazione e ipercultura, chi lo ama e chi lo legge da anni lo sa, si è creato un posto nell’olimpo, ha sedotto con i suoi eterni rimandi alla filosofia di Hegel, Barthes, Benjamin, ama Heidegger e si sente, ha dato un respiro nuovo alla filosofia e ampliato la fascia di lettori naif che trovavano la materia un po’ stantia, pregressa con titoli eccitanti e avvincenti: La società della stanchezza, Cos’è il bello, Psicopolitica, saggi sul Sano intrattenimento che rivendicano l’arte in una società positivista che ha dimenticato il suo negativo ridotta ai Big Data, ai Like, agli smarthphone, alla finta bellezza invasiva, inutile e levigata dei media e dell’immagine di oggi che ha perso i suoi volti per il digitale, che ci mette la faccia senza i lineamenti, una generazione che ha perso il suo senso estetico, che ha tolto fronzoli e spigoli, si è resa gastronomica anche agli occhi e ha perso l’idea del sublime.

Più che mai, oggi, forse addirittura in questi giorni si parla di Storia come se essa stessa fosse stata riattivata dalle rovine della nostra epoca e del nostro mondo, dopo il Covid adesso anche la guerra in Ucraina, tralasciando la teoria filosofica di uno dei suoi più grandi maestri e filosofi Jean Baudrillard, a cui deve due terzi dei suoi saggi, significativamente rivisitato, riletto, condensato in poche pagine per ogni spartito argomentativo, sembra che a Byung- Chul Han sia mancata per un attimo la teoria, il concetto, il profondo nesso con i suoi studi e la sua tracotante voglia di ritornare sugli stessi temi per analizzarli ancora, ancora portarli a compimento, ormai materia inequivocabile e colta, continuo citazionismo, sfrenato divertissement per il suo stesso autore, questa autoreferenzialità giocosa e bellissima per il lettore. Sembra proprio che in quest’opera apparentemente semplice e svincolata dagli autori padri su cui ha fondato il suo marchio, la sua carriera e il suo pensiero di studioso sia diventato un “autore romantico”, depotenziato almeno un po’ dal suo scomparto filosofico per innescare una sottotraccia poetica in tempi di crisi e di oscenità.

Elogio della terra- Un viaggio in giardino non vuole essere assolutamente una guida di giardinaggio, bensì medita un po’ fuori tempo, e questo non gli toglie, anzi gli fa acquistare un certo coraggio, sull’importanza del nostro Pianeta Terra con uno sguardo penetrante che non è mai – come dicevamo- solo pura riflessione ma che accosta poesia e Natura, trascendendo i tratteggi della filosofia e della nozione. Importanza del nostro pianeta che ormai abbiamo dimenticato da tempo, camminiamo sulle nostre rovine, e queste ore sono fatidiche per l’abominio, l’abbandonarsi ai conflitti e alla guerra, l’abbandonare l’Eros, come direbbe in uno dei suoi più audaci trattati, ciò che ci lega al creato, l’annichilimento della Natura al cospetto delle bombe e del turpe.

Parte proprio da un’idea impossibile che svela fin da subito la sua complessità, il filosofo giardiniere romantico Byung- Chul Han, ammettendo già da sé il problema del “giardino d’inverno”, questa idea così romantica e poetica del mondo e della Natura che soverchia le abilità e il duro lavoro dell’uomo che la lavora, si fa operaio di radici e di arbusti che smettono di creare una relazione fin da subito con l’operato del giardiniere, smettono di collocarsi in armonia sul territorio di lavoro, perdono uno schema d’inverno, si biforcano o diventano fiori smorti, le piante d’inverno creano un rapporto metafisico con il suo creatore. Tanta fatica durante la calamità dell’inverno che genera scompenso nel piccolo dio che è il coltivatore, sempre laborioso ma insufficiente nel ripercorrere le azioni, la profezia di piante e fiori che vivono e muoiono scaturendo dal freddo e gettandosi in morse di dolore senza ragione.

“Questo Elogio della terra dovrebbe risuonare come un canto alla terra, ma per alcuni dovrebbe valere come monito- sulla scia di quello di Giobbe- alla luce delle clamorose catastrofi naturali che oggi ci affliggono. Esse non sono che la risposta irosa della terra alla violenza, all’umana mancanza di scrupoli. Abbiamo smarrito ogni traccia di timore reverenziale nei confronti della terra. Non la vediamo, non la udiamo più.

Da questa premessa il filosofo tedesco demistifica il concetto di digitalizzazione. Un occhio sempre pronto ad uno sguardo “privo di senso” in una società che ha fatto della trasparenza il suo inganno, nell’informazione e non nella teoria e nella nozione il suo danno, che ha fatto del suo tempo e della sua pensosità una velocità liscia, mai durevole per davvero, viva e morta nell’attimo. E’ qui che abbiamo quindi perso il concetto della vera opera d’arte, della distanza e della negatività della separazione di cui parla nel suo saggio illuminante Benjamin, “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, edito Einaudi. L’occhio non ha tempo di chiudersi, di fermarsi, di essere pensante per osservare e non per vedere. La digitalizzazione infatti fa scomparire del tutto la terra per uno sguardo narcisistico, non vediamo più l’Altro, quindi non possiamo elogiarlo, addirittura non lo rispettiamo.

In francese “digitale” si dice numérique. Il numerico demistifica, spoetizza, deromanticizza il mondo. Lo priva di qualsiasi segreto, di qualsiasi estraneità e trasforma ogni cosa nel noto, nel banale, nel famigliare, nel like, nell’Uguale.”

Ecco che bisogna riaprirsi ad un romanticismo. Bisogna toccare nuove corde. Bisogna nutrirsi di flemmatico, bisogna ritornare alla posatezza, dobbiamo ricostruire il nostro rapporto con ciò che come direbbe Adorno “è l’esatto contrario del soggetto che s’impone a tutti i costi” cioè la terra.
Bisogna scoppiare in lacrime, attraverso il sublime dell’arte, e prima del sublime che è attraente dell’opera che l’uomo crea, bisogna ritornare a rivedere la propria natura, perché scoppiando in lacrime dinanzi, ad esempio alla musica di Shubert, piangiamo senza sapere perché, l’Io sacrifica la propria superiorità e si rende conto del legame che ha con la natura: piangendo, ritorna alla terra. La terra ci libera dalla nostra stessa prigionia. Ci libera da una società del numero in un pianto e una redenzione istintiva e preriflessiva. Abbiamo bisogno di un ritorno alla naturalezza e alla costanza del rapporto con l’Altro. Dobbiamo toccare la Natura, non in maniera gastronomica, non con un tocco ti touch, dobbiamo rivedere il nostro tocco, dobbiamo saper fare l’amore, dobbiamo essere romantici. Dobbiamo dare nomi alle piante, essere sedotti e toccarle con seduzione, come Diotima, protagonista femminile dell’Iperione di Holderlin, che dà nomi “nuovi e più belli”. I nomi dei fiori sono parole d’amore.

Oggi più che mai non esiste separatismo tra opera d’arte e spettatore. Insomma, l’immagine proprio come l’installazione proprio come l’opera d’arte in toto sono diventate mobili. Non vi è più quell’estrema indulgenza di pensiero e di sguardo che separa, che avvicina e che allontana, che rende opaca una rappresentazione. Diremmo oggi che il nostro sguardo è tridimensionale proprio come il digitale, oggi che tutto è a portata di mano, in una società di massa che tutto vede e tutto sente, dove le informazioni hanno il battito di un click. Si è perso, non solo apparentemente, l’impulso alla seduzione dell’opera che non si svela. Così si perso anche e soprattutto il nostro osservare chi amiamo, si è perso l’amore che vive di segreti, di maschera, di gioco. Abbiamo assimilato tutte le nozioni fondamentali sul comportamento del nostro partner, sappiamo già tutto prima di un incontro, ci disimpariamo anche da quel po’ che sappiamo essere la storia, abbiamo vissuto la sofferenza delle Torri Gemelle da vicino, prima di vederle per davvero, attraverso l’utilizzo dei media. Questa società positivista, il neoliberalismo, hanno rotto con la distanza, abbiamo tutto sotto il nostro naso. La nostra storia è la storia del nostro narcisismo, anche l’opera d’arte è tesa a rispecchiarci, non ammiriamo più l’ombra dei fiori, i chiaroscuri del nostro amante, amiamo la certezza, viviamo nella ricerca continua di chiarore, siamo illuminati, vittime di una pornografia di sguardo che lascia accadere le cose senza interrogativi.

Soprattutto non viviamo il dolore, abbiamo vissuto il Covid trapassandolo, sporgendoci con il corpo e la faccia sempre al di fuori della tragedia, sorpassandola senza viverla davvero. Siamo essere violenti, l’opera d’arte ci dice qualcosa del nostro narcisismo, è un ego al di fuori dei nostri corpi anche essa che rispecchia e su cui noi riflettiamo. In due saggi intelligenti e reazionari sul nostro tempo sull’Estetica, ProfanazionieNuditàediti da Nottetempo di Giorgio Agamben, filosofo italiano, docente di filosofia teoretica all’Università di Venezia, cerca di dare un senso al troppo visibile della nostra epoca. Teorizza cioè l’idea di secolarizzazione dei luoghi in cui si immette arte, si conserva. Accosta il turismo del nostro secolo ai vecchi pellegrinaggi e i musei ad un nuova forma di tempio dove si conserva l’arte, questi luoghi riuscirebbero tutt’oggi nella nostra società a rivitalizzare o tenere ancora un po’ viva quella distanza tra oggetto d’arte e spettatore per ricreare ancora una certa seduzione del bello e del sublime? Soprattutto parla di profanazione dell’arte, cercando di limare una nuova teoria sull’arte stessa della nostra contemporaneità che non ha molti seguaci alla stregua. E’ qui che esprime la perdita di senso del nostro sguardo o dello sguardo rappresentato dall’immagine stessa. Un’immagine che si fa vedere soltanto, l’immagine cioè che perde di potenza, si affina senza reazione al farsi semplicemente vedere. Tutto è porno nella nostra società, l’erotismo si è spento e anche la sua sporcizia. Non rimane che il positivo della sessualità: il porno. Agamben traccia così una tesi su come un’immagine senza senso, depotenziata, possa così ricaricarsi e imbottirsi di esposizione e di ipervisibilità per rinascere con un nuovo senso. Ma questa tesi perde di seguaci nello stesso momento in cui è fagocitata, perché l’immagine di oggi non è soggetta più ad una negatività o come direbbe Barthes ad un punctum. La guerra stessa filmata, il reportage giornalistico, non possiamo dire siano immagini riposanti. Eppure anche se pensanti e laboriose con la scomparsa della pellicola, del nitrato d’argento e la nascita del digitale perdono quell’aspetto romantico, perdono la loro datazione e il loro tempo, che sopperiva la sovra leggibilità della modernità e creava un luogo di memoria e di ricordo. Oggi con l’uso del digitale l’Eros dell’immagine, la sua malinconia, la sua carica erotica e il dolore sono stuprati dallo sguardo che guarda tutto e si immerge nel tutto: la pornografia.

La guerra più che mai entra nelle case, non solo come nozione, non come storia, non come violenza agli occhi educativa, l’informazione ha perso poli opposti, carica. Non si riesce più ad avere paura.

Nel suo più bel saggio, Eros in Agonia pubblicato da Nottetempo, Byung-Chul Han attraverso l’immagine ci racconta quella distanza tra un fiore e l’uomo che abbiamo intrapreso a inizio discorso in Elogio della Terra. Il fiore, come l’oggetto romantico del desiderio di un uomo, quindi come la donna, quindi come l’amore e soprattutto come l’immagine con cui non possiamo amare ma possiamo solo garantirci il nostro ego, hanno perso d’amore. E in un epoca in cui non si ama, non c’è l’Altro, l’Altro lo inventiamo per comunanze, lo inventiamo tramite Instagram e Facebook, lo idealizziamo in un consumismo delle emozioni, c’è sempre una disparità tra i popoli, c’è quindi lo scontro e il conflitto, perché non vediamo e conosciamo mai davvero l’Altro. In queste pagine illuminanti, attraverso il concetto di Melancholia Byung-Chul Han non solo discute sul cinema danese di Lars Von Trier, ma si concentra su due opere d’arte importantissime del pittore olandese Brueghel, l’artista che consegnò proverbi e contadini all’arte con Cacciatori nella neve e Paese della cuccagna. La protagonista del capolavoro cinematografico di Von Trier infatti, si fa sovraccaricare di energia negativa, in lei avviene una rigenerazione, un’epifania subito dopo essersi messa all’ascolto di qualcosa di inespugnabile e inatteso, si veste di un forte perturbamento che oltre a sovrastarla la rinvigorisce, lei è testimone di un dissesto che ha sentito nelle sue stesse membra. Diventa spia e sentore di un disastro che sta per avvenire per colpa di una stella che sta per toccare il pianeta Terra con il fine di distruggerlo. Inizia così a fare i conti con la sua stessa esistenza, donna caparbia e ridotta ad un punto nell’universo, il negativo di questa vicenda la porta ad una catarsi, all’accostamento con l’Altro, il disastrum (cattiva stella in latino) la culla eroticamente, la espugna dal suo narcisismo, per la prima volta si sente al di fuori di se, accetta l’Altro da sé e ne viene romanticamente sovrastata. Proprio come quando osserva l’arte pittorica olandese di Brueghel, quando osserva un quadro sulla decapitazione, avviene in lei una forte perturbazione che la rimette in vita. Oggi nell’Inferno dell’uguale, l’arte così come la foto reportage, così come la rappresentazione della guerra, soprattutto in questi ultimi giorni, quali corde tocca negli occhi e nel cuore dello spettatore? Può esserci del romanticismo, della sofferenza, la giustizia del dolore, nello spettatore che guarda oggi? Come facciamo a combattere una guerra, se non riusciamo a rappresentarla o ad osservarla con negatività, opacità e spessore? E’ possibile vedere con gli occhi in una società positivista?

Il soggetto narcisistico è incapace di riconoscere l’Altro nella sua alterità e di accettare questa alterità; per lui ha senso solo ciò in cui può riconoscere, in qualche modo se stesso. Egli sprofonda ovunque nell’ombra di sé, sino a annegare in se stesso.”

In un saggio di Susan Sontag, sempre della stessa collana Figure di Nottetempo, che si intitola Davanti al dolore degli altri Sontag si interroga proprio su questo: oggi è possibile una “riproduzione” del dolore? Come si può fotografarlo o filmarlo senza sottrargli verità o produrre effetti di voyeurismo?

Non è mai banale parlare d’amore. Non è mai banale restituirci tra una dimenticanza e un’altra, tra una violenza e una guerra questo sentimento. Questo sentimento che crea concordia, l’Eros che secondo Platone guida l’anima, ha il potere su tutte le sue componenti: desiderio, coraggio e ragione. Il thymos (coraggio) è bene quindi non dimenticarlo, l’Eros è anteposto non solo al desiderio ma anche dal coraggio che lo induce a compiere buone azioni. Il thymos è il luogo dove politica e Eros si toccano. La politica di oggi ne è completamente priva, è degradata a puro e vuoto lavoro. Dovrebbe farsene un mestiere dell’animo, diverso, altro, proprio come il mestiere del filosofare. La filosofia infatti è il luogo in cui si toccano Eros e Logos, dove per discorso e ragione non si intende il calcolo numerico di oggi. La filosofia esattamente è traduzione dell’Eros in Logos.

In una poesia della raccolta Corpo di pane di Elisa Ruotolo del 2019, la poetessa cerca proprio di non sopperire alla terra, si identifica nella tragedia e nel dissesto della natura. Così il corpo dell’uomo, ridotto all’osso, non appetibile, non in grado di essere mangiato e innaffiato (quel titolo della raccolta ne è quasi uno specchio per le allodole) non può essere dimora. Nella sua opera si racchiude tutto il negativo erotico al di fuori della positività della nostra contemporaneità. Elisa Ruotolo come in Corpo di Pane così in Quel luogo a me proibito edito da Feltrinelli, si muove carponi, si accende e si spegne di fronte all’Eros, è aggredita, vilipesa, giustiziata, implorante eppure catturata di continuo da un nulla eccitante, direbbe Novalis di un fiore blu, della sensazione romantica che crea nell’uomo seduzione e perturbamento. La sua è un’arte della suggestione, un’arte del continuo pensiero, dell’indugiare.

Quando il campo avrà finito non vorrà più saperne
di noi. Compatterà le zolle stringerà le polveri l’erbaccia si farà più amara, più facile alla rabbia dei ginocchi – si farà sterpo al graffio imprevisto che brucerà fino a domani.

– Respirate ancora – dirà stasera il campo. – Restate in luce.
Io non voglio farvi dimora.

Sarebbe meglio non dimenticarsene di questa poesia, sarebbe meglio rasentare lo schermo con il naso per guardare più da vicino, aprire oltre i propri occhi senza negatività oggi che hanno disimparato a vedere per lasciarsi andare ad altre vie. Ad altre paci, con noi stessi e con gli altri. Platone dichiara Poros padre di Eros, bisticciando con la tradizione, e Poros significa via. Riprendiamola, facendoci suggestionare soprattutto dall’impercorso heideggeriano, per uscirne nuovi e senza guerra grazie all’uso incondizionato dell’amore.

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