“L’estate dell’incanto” di Francesco Carofiglio è un’esperienza intima

by Ines Pierucci

A metà tra un film di Guadagnino e un omaggio all’Infinito di Leopardi, nonché alla natura immortale, oltre i duecento anni della poesia. L’estate dell’incanto (PIEMME, 2019) di Francesco Carofiglio è un’esperienza intima, come quella del De rerum natura di Lucrezio, che avvicina lo scrittore al lettore attraverso l’intimità della poesia e della natura.

Francesco Carofiglio scrive opere per il teatro, sceneggiature per il cinema e la televisione, abituato a far sentire addosso al lettore la luce degli spazi che racconta, questa volta ha scelto Firenze per l’ambientazione del suo ultimo libro. Ogni scrittore parte da un luogo, di cui molto spesso si innamora, e dove ritorna; non so se è andata così anche per Francesco ma ogni luogo soprattutto in letteratura apre diverse nature e sfida le proprie paure, così come il bisogno di ricerca che ti porta ovunque.

Dopo dieci pubblicazioni Francesco Carofiglio scrive un libro con una storia a cui ci si appassiona grazie alla sua ambientazione, a quello che si respira all’interno del libro. Attento alle dinamiche tra esseri umani l’autore legge nelle cose, senza accontentarsi di quello che vede. Miranda è una donna ormai anziana che racconta l’estate del lontano 1939, la più bella della sua vita, quando all’età di dieci anni si è inconsapevoli di tutto quello che ti circonda e nel tempo rimane: “un fermo immagine nel racconto interminabile della sua vita”.

I salti temporali della narrazione lasciano la trama a volte sospesa per dedicarsi ai dettagli, allo spazio, alle descrizioni ossessive dei particolari come una lente di ingrandimento che si avvicina e si allontana a seconda della curiosità dello scrittore nei confronti della bellezza, dell’estetica del panorama che lo circonda.

Quando una storia riesce a trasmettere al lettore le sensazioni olfattive che neanche il cinema può fare è una storia di successo. “La memoria olfattiva è la più potente”, ché tante volte la si prova a cercare invano, come “il tempo: un risalire un fiume controcorrente, nei flussi ingovernabili della memoria”.

Nel leggere questa ricerca provo a farlo io stessa e ci riesco solo quando spira tra le pagine il “vento leggero profumato di campagna e di camicia stirata” oppure “quello della ginestra intenso e gommoso … il profumo bagnato dell’erba”. La memoria è anche una nebbia lattiginosa che la scrittura può aiutare a schiarire.

Per parlare di amore l’autore abbraccia le parole di Emily Dickinson e l’eros di Platone figlio di Poros (ricchezza) e di Penìa (povertà) ne omaggia l’assenza.

Nonostante la complessità di un’intera esistenza sia costretta in un corpo che muore la felicità è un passaggio veloce, un volo radente sopra le cose del mondo. Ne L’estate dell’incanto del 1939 il jazz è proibito e la musica è di Brahms, il teatro, caro allo scrittore, è affidato all’immagine elegante di Bernstein e Gould che accompagna il viaggio della protagonista riportandola da dove è partita. “Mi sono sempre sentita a casa viaggiando” è la frase più bella del libro ed è esattamente quello che accade quando ci si lascia andare nel piacere della lettura, in questo momento, restando a casa.

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