L’Infedele fra i padroni e gli operai, Gad Lerner: “Senza leader dal mondo del lavoro la sinistra rimarrà fragilissima”

by Felice Sblendorio

Ci si imbatte nelle contraddizioni antiche e moderne della sinistra leggendo la bella e audace autobiografia di Gad Lerner, “L’infedele. Una storia di ribelli e padroni” (Feltrinelli, 256 pagine, 16 euro). Raccontando una storia privata e politica, personale e collettiva, il giornalista tratteggia ricordi e giudizi su una carriera fortunatissima: dai giornali (Lotta Continua, La Stampa, Repubblica, oggi Il Fatto Quotidiano) alla televisione (Profondo Nord, L’Infedele, la direzione del Tg1).

Nel mezzo le rivoluzioni, le battaglie e le contraddizioni della sinistra che, parallelamente a queste vicende umane, assomigliano molto alle dissonanze della vita stessa dell’autore. Si possono professare idee di sinistra vivendo una agita vita altoborghese? Si possono frequentare i padroni lottando ancora per i diritti degli ultimi, delle classi subalterne? Partendo da queste domande, Lerner riassume e tenta di pacificare con acume e con una sincerità quasi autolesionista una cesura umana e politica che, ancora oggi, interroga l’eticità profonda di chiunque si riconosca nei valori della sinistra. bonculture ha intervistato Gad Lerner.

Partirei dal titolo del suo libro. L’infedele chi è? È lei?

L’infedele sono io, certamente. È stato anche il titolo della trasmissione che ho condotto più a lungo. È un marchio di fabbrica, oramai. Cominciando dal titolo, però, eviterei di drammatizzare troppo: l’autoironia aiuta a vivere e a non prendersi troppo sul serio. Se fossi mitomane potrei indicare come modelli di scrittura Saul Bellow e Philip Roth: due persone che hanno saputo raccontare le proprie contraddizioni personali inquadrandole storicamente senza dimenticare la dimensione comica.

Ha cominciato la sua attività giornalistica a “Lotta Continua” e, dopo anni, oltre agli operai ha conosciuto e frequentato anche i padroni. All’epoca non erano i vostri nemici di classe?

Sì, ma erano soprattutto entità lontanissime, mitologiche, irraggiungibili. “Agnelli, Pirelli, ladri gemelli”, si diceva all’epoca. Agnelli e Pirelli, ad esempio, erano entità astratte sia per dei militanti come noi ma anche per gli stessi operai che lavoravano nei loro stabilimenti. I padroni non si vedevano mai. Padroni: una parola che oggi si adopera con una cautela secondo me eccessiva, perchè nella sua elementare chiarezza è tuttora valida. La si può adoperare senza arrivare a considerarli nemici, ma distinguendo. Il mio lavoro di giornalista prima, e di personaggio televisivo poi, mi ha portato a conoscere e frequentare molti padroni.

Conoscere e frequentare i padroni, dimenticandosi forse le radici originarie della sinistra. È il punto di non ritorno di un’intera generazione?

Lei tocca un punto cruciale della mia esperienza perchè io ho vissuto il divorzio storico della sinistra dagli operai. Alle nostre spalle, oggi, c’è una cesura compiuta dalle giovani promesse del partito di Enrico Berlinguer, un Berlinguer che, ancora prima di morire, ha condotto battaglie destinate alla sconfitta: dalle 35 giornate di resistenza operaia a Mirafiori al referendum sulla scala mobile. Anche nella sconfitta, nei rapporti di forza sfavorevoli, il partito era dalla parte degli operai. Era una visione politica, ma anche una radice culturale: la sinistra era nata nelle fabbriche e doveva per forza di cose rappresentare le classi subalterne.

Parla spesso di biografie (e di vite) politiche inconciliabili con certi valori. Per molti, avvicinandosi al potere la sinistra ha dimenticato e tradito le classi subalterne. Questa distanza sociale ha definitivamente azzerato i punti in comune con il popolo della sinistra?

La generazione di D’Alema, Veltroni, Fassino, dissoltasi questa idea di classe, di partito della classe operaia e crollato il Muro di Berlino, aveva capito che la sinistra poteva finalmente aspirare al governo del Paese. Nell’avviare quest’operazione di avvicinamento al potere hanno in qualche modo voluto dimostrare ai padroni, o all’establishment, che sapevano stare composti a tavola: i comunisti non mangiavano più i bambini e gli si poteva affidare le leve del potere senza temere un tracollo economico. Questa ansia di legittimazione ha cambiato storicamente i loro stili di vita, il loro modo di vestirsi, una certa indulgenza nei confronti dei vizi del capitalismo italiano perdonando di fatto rendite monopolistiche di posizione, patti di sindacato impropri, conflitti di interesse, favoritismi nelle politiche fiscali. Tutto questo ha provocato una frattura esistenziale con il mondo degli sfruttati che si è sentito abbandonato, tradito.

Recidendo quel legame, cosa sono diventati i partiti di sinistra?

I partiti e noi siamo cambiati. Abbiamo avuto anche un vantaggio economico da questa mutazione, ma poi ci sono stati dei dati strutturali più profondi e significativi. Il partito e il sindacato della sinistra erano luoghi fertilissimi di acculturazione degli ultimi e degli sfruttati che garantivano una crescita dal punto di vista culturale fino a esprimere dall’interno veri pezzi di classe dirigente. Tutto questo si è spezzato, si è interrotto. Credo che fin quando non si ripristinerà un percorso di crescita di nuove leadership e di nuove figure rappresentative provenienti dal mondo del lavoro la sinistra rimarrà fragilissima.

Una nuova leadership convincente nascerà dalle fragilità del mondo lavoro?

Certo, è stato sempre così nella storia. Nel mondo del lavoro, la parte più oppressa e sfruttata migliora le proprie condizioni quando dal suo interno emergono figure capaci di unire e guidare un percorso comune. Non ci sono padrini esterni che possono provvedere. Buozzi, Grandi e Di Vittorio, i fondatori del più antico sindacato italiano, dalla loro condizione disagiata hanno costruito una leva di crescita straordinaria.

In queste pagine aggiunge che la tragedia odierna non è solamente una sinistra senza operai, ma anche una classe operaia senza sinistra. Ne è convinto? Racconta la transizione a destra di un luogo simbolo della sinistra: Cerignola, la terra dei braccianti e delle idee di Giuseppe Di Vittorio.

Sono convinto che non ci perda solamente la sinistra, ma ad esempio anche i braccianti di Cerignola. Dividendosi fra italiani e stranieri, e opponendosi per nazionalità, pensate forse che ci abbiano guadagnato i braccianti italiani, che sia cresciuto il potere d’acquisto dei loro redditi, che si siano irrobustiti i loro diritti sociali e le loro tutele sindacali? Ovviamente no. Soltanto dall’unione, che da sempre nella storia degli sfruttati oltrepassa il colore della pelle, la religione e la nazionalità, si ottiene qualcosa. Non a caso si è sempre parlato di internazionalismo alla base dei movimenti di emancipazione del mondo del lavoro: è da lì che bisogna ripartire.

Accusa il mondo intellettuale di aver dimenticato il racconto e la critica sul mondo operaio. Perchè non interessa più il destino di quella classe sociale?

Questo libro lo rimuginavo da anni, ma l’ho scritto quest’anno anche come reazione a un doloroso distacco che ho vissuto da Repubblica quando è stato licenziato il direttore Carlo Verdelli e c’è stato il cambio di proprietà con il subentro della famiglia Elkann. Il mondo del giornalismo oggi è molto meno libero perchè subisce un ricatto di natura padronale e si è proletarizzato, trasformandosi in una professione che, nonostante sia considerata prestigiosa, è sottopagata. Tutto questo spiega le fragilità e le desensibilizzazioni degli intellettuali su problematiche imbarazzanti. Le dirò di più: sono contento di aver scritto questo libro, ma non le nego che mi diverto molto a percepire l’imbarazzo con il quale lo hanno accolto tanti miei colleghi. Non c’è più l’abitudine di discutere pubblicamente delle nostre incoerenze, dei nostri rapporti con i padroni, gli azionisti, gli editori. Una volta lo si faceva.

Non crede che ci sia anche una subalternità culturale? Alla morte di Marchionne, ad esempio, i giornali progressisti hanno celebrato questo manager in maniera agiografica…

Ne sono convinto. Di Marchionne mi ha colpito la presunta modernità. Invece, se si guardavano i risultati per i dipendenti della Fiat o per il Paese, il giudizio sarebbe stato diverso da quell’apologia che ha portato addirittura a scegliere dalle file della sinistra, senza se e senza ma, Marchionne nel confronto con l’allora segretario della FIOM Maurizio Landini. Idem sulla vicenda della concessioni autostradali: per giorni e giorni abbiamo faticato a trovare la parola Benetton sui giornali storicamente sostenuti da quella famiglia. Una subalternità completa.

La sua carriera è stata lunga, fortunata. Grazie a “Profondo Nord”, uno dei primi programmi giornalistici itineranti, lei ha abitato la realtà.

Il più grande privilegio che uno possa avere è soddisfare i propri interessi, lasciandosi smentire dalla realtà. Bisogna sempre coltivare lo stupore, verificando ogni giorno quanto possano reggere le proprie interpretazioni sul mondo che ci circonda. Alla fine, ci si stupisce sempre.

Profondo Nord” ha raccontato la nascita del più longevo partito italiano, la Lega Nord. Tolse quel partito dal dibattito folkloristico e diede a quelle rivendicazioni urlate una dignità politica. Cosa aveva intuito, tanto tempo prima del successo elettorale, di quel partito così atipico?

Io ero colpito dal fatto che si registrasse un tale malessere sotterraneo che tendeva a esplodere nelle regioni in cui si viveva meglio. Il malcontento leghista arrivò da una delle realtà più fortunate del Paese. La rivolta cominciò da lì: fu un moto di rabbia dei benestanti o di chi rischiava di non esserlo più. Allora ho cominciato a scavare rendendomi conto che dietro c’era una storia antica fatta di controriforme, San Carlo Borromeo, tradizioni reazionarie senza dubbio popolari, ma radicatissime. All’epoca percepii l’energia inquietante ma autentica del leghismo: una carica così forte da prendere il potere, spero per un breve momento, dell’intero Paese.

Questo partito cosa ha prodotto culturalmente?

È stato il partito che ha autorizzato gli italiani a dire l’indicibile. I leghisti hanno cominciato a dire ad alta voce le imprecazioni che ci si sussurrava nei bar: prima i meridionali, poi gli stranieri, i gay, le donne emancipate. Culturalmente è stata la costruzione di un senso comune reazionario che già esisteva, ma che ora diventava pronunciabile. Da anni declamano e rivendicano ai quattro venti la cattiveria come un titolo di merito.

Perchè, nel tempo, è diventato il bersaglio perfetto di una certa narrazione anti-establishment?

Ci tengo a evitare lamentele: sono un privilegiato e non ho il diritto di fare la vittima. Questo, però, mi rende ancora più antipatico: ho l’erre moscia, ho il nome strano, sono nato sull’altra sponda del mare, sono apolide ma mi sento italiano, sono un sessantottino, continuo nonostante il successo e il denaro ottenuto a professare idee di sinistra. Sono una maschera comodissima per una propaganda che vuole additarmi come estraneo al popolo, come servo dei potenti. Poi gli stereotipi novecenteschi, e ancora di più quelli antichi dell’antisemitismo, vengono buoni tutti. Oramai sono rassegnato. Anche divertito per l’ingigantimento delle mie economie: non sono una persona ricca, ma sto bene. Lo dico, senza nasconderlo ipocritamente come fanno tanti amici del popolo.

Qual è l’insulto che le fa più male?

Non c’è una classifica. Quando si arriva all’antisemitismo, e l’ebreo viene nuovamente classificato come lo straniero e l’estraneo al popolo, l’insulto diventa un segno culturale pericoloso. La minaccia non l’avverto per me, ma per le persone fragili, per i senza diritti. Sarà che io ho avuto la cittadinanza italiana all’età di trent’anni, nonostante vivessi in questo Paese dall’età di tre. Quando vedo Suarez prendere la cittadinanza con un esame truccato, penso ai ventisette anni vissuti prima che qualcuno mi dicesse di avere il diritto di essere italiano. Questo mi porta a immedesimarmi molto con le vittime delle campagne xenofobe.

Sembra che la rivoluzione sia un basso continuo nella sua vita. La rivoluzione è una promessa di speranza?

Io resto convinto che senza questa fede, religiosa o meno che sia, non ci sia una possibilità di cambiamenti radicali, di migliorare decisamente la propria condizione di vita, di vincere le ingiustizie. Senza questa molla non c’è riformismo, iniziativa moderata o pragmatica che possa far avanzare o star meglio le persone. Il Messia è una speranza rivoluzionaria: è la molla del progresso.

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