L’inferno di Treblinka, un reportage di testimonianze

by redazione

Corrispondente di guerra di immensa popolarità – dal giugno del 1941 i suoi reportage apparivano sull’organo ufficiale dell’Armata Rossa, «Krasnaja zvezda» (Stella rossa) -, Vasilij Grossman (1905-1964) scrisse L’inferno di Treblinka nell’autunno del 1944, subito dopo la liberazione del campo.

Si fondò su decine di testimonianze di prima mano (i pochi superstiti, gli abitanti dei dintorni, le stesse guardie). Apparsa sulla rivista «Znamja» (Bandiera) nel novembre, questa folgorante cronaca venne anche data in lettura, per iniziativa del procuratore militare sovietico, al collegio d’accusa del processo di Norimberga.

Ogni giorno a Treblinka arrivavano fino a ventimila persone

Bonculture pubblica uno stralcio del libro. Eccolo.

I discorsi senza fine rivolti a chi era condannato a morte certa, e le prediche, e le massime edificanti stampate con grande cura su carta pregiata erano idre, draghi mostruosi sviluppatisi dall’embrione dello sciovinismo germanico, dalla boria, dall’egoismo, dalla baldanza autocompiaciuta, dalla sollecitudine pedante, bavosa verso il proprio nido, e dalla ferrea, algida indifferenza per le sorti di qualunque essere vivente, dalla convinzione cieca e ottusa che al mondo non potesse esserci nulla di più bello e perfetto della scienza, della musica, della poesia e della lingua tedesche, dei giardinetti, dei water, del cielo, della birra e degli edifici tedeschi.

Caino, dove sono coloro che hai condotto qui?

Così viveva Treblinka, una sorta di Majdanek su scala ridotta, e si poteva pensare che al mondo non ci fosse nulla di più orrendo. La popolazione del campo, invece, sapeva bene che qualcosa di più tremendo, di cento volte più orrendo c’era eccome.

A tre chilometri dal campo di lavoro, nel maggio del 1942, i tedeschi iniziarono a costruire un lager per gli ebrei, un patibolo. I lavori procedettero alacremente e coinvolsero più di un migliaio di operai. Nel nuovo lager nulla era pensato per la vita, tutto era inteso per la morte. La sua esistenza, così aveva deciso Himmler, doveva restare assolutamente segreta, nessuno doveva uscirne vivo. E a nessuno era concesso di avvicinarsi al lager.

La strada senza ritorno

Si sparava senza preavviso a chiunque capitasse anche solo a un chilometro di distanza. Gli aerei tedeschi non erano autorizzati a sorvolare l’area. E sulle tradotte, lungo un’apposita diramazione della ferrovia, le vittime non sospettavano fino all’ultimo quale destino le attendesse. I soldati di scorta ai convogli non venivano ammessi oltre la recinzione più esterna del lager.

Al loro arrivo i treni erano presi in consegna dalle SS. Il convoglio, di solito sessanta carrozze, veniva suddiviso in tre scaglioni nel bosco antistante il lager e la locomotiva portava venti vagoni per volta alla banchina del campo. Li spingeva da dietro, fermandosi prima del filo spinato, così che né il macchinista, né il fuochista mettevano piede nel lager. Scaricati i primi vagoni, il fischio di un sottufficiale delle SS ne richiamava altri venti, in attesa del proprio turno a duecento metri di distanza.

I lavori alla fabbrica della morte

Quando tutti i sessanta vagoni erano stati scaricati, il comando del lager avvertiva telefonicamente la stazione affinché mandassero un altro convoglio; intanto quello vuoto proseguiva verso la cava, dove veniva riempito di sabbia per poi raggiungere le stazioni di Treblinka e Malkinia con un nuovo carico.

Era questo il vantaggio della posizione di Treblinka: stipati di vittime, i treni vi giungevano da ogni punto cardinale, da oriente e da occidente, da nord e da sud. Dalla Polonia – Varsavia, Miedzyrzec, Czestochowa, Siedlce, Radom -, dalla Bielorussia – tomza, Bialystok, Grodno e non solo -, da Germania, Cecoslovacchia, Austria, Bulgaria e Bessarabia. I treni arrivarono a Treblinka per tredici lunghi mesi, ogni convoglio aveva sessanta vagoni e su ogni vagone era scritto un numero col gesso: 150, 180, 200.

La tortura della menzogna

Il numero delle persone che trasportava. Gli addetti alla ferrovia e i contadini dei dintorni tennero un conto segreto dei transiti. Un contadino settantaduenne di Wólka (il centro abitato più vicino al lager), Kazimierz Skarzynski, mi ha detto che in certe giornate passavano fino a sei convogli provenienti da Siedlce, e che non ci fu giorno o quasi, in quei tredici mesi, in cui non vide almeno un treno. E la ferrovia di Siedlce era soltanto una delle quattro linee che rifornivano Treblinka….

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