L’inverno più nero del Commissario De Luca: un dialogo con Carlo Lucarelli

by Felice Sblendorio

Bologna è congelata, il ghetto è assediato da uomini e bestie: fra i portici ci sono quasi 600.000 persone e 22.000 mucche. Tutto è incerto, come la città prima vuota e ora piena di gente, come lo spazio politico diviso fra tedeschi, partigiani e fascisti della Repubblica Sociale Italiana.

In questo scenario evocativo e oscuro si svolge la nuova indagine del Commissario De Luca, uno dei personaggi più amati di Carlo Lucarelli, maestro indiscusso del giallo italiano. A distanza di trent’anni dal debutto del suo Commissario, Lucarelli torna con “L’inverno più nero” (Einaudi Stile Libero, 312 pagine, 18 euro): un romanzo che conserva l’impostazione del grande giallo con lo stimolo del dramma, della storia italiana, della ricostruzione sociale e psicologica dei protagonisti. Raccontatore di misteri e segreti, dai libri alla televisione, Lucarelli dopo la trilogia pubblicata fra il 1990 e il 1996 è ritornato a muovere e interrogare il suo protagonista negli anni della Seconda Guerra Mondiale, del fascismo, per cercare ancora un senso a quel tempo così irrisolto del nostro Paese. Con una prosa che non molla mai l’attenzione del lettore e rivela nei momenti meno scontati colpi di scena e misfatti, De Luca dovrà risolvere tre omicidi complessi cercando di fare la cosa più difficile in quei momenti: la cosa giusta. bonculture ha intervistato Carlo Lucarelli.

L’inverno più nero” è il suo sesto romanzo sul Commissario De Luca: in queste pagine racconta un anno di transito, il 1944: perché indaga ancora questo segmento di storia?

Perché ci sono ancora tante cose da raccontare, tante sfumature storiche importanti. Studiare la storia significa comprendere dei meccanismi che ci sorprendono ogni volta e che sono una diversa risposta dell’uomo, del Paese, di tutti noi. Ha senso riscoprire quei momenti anche per quello che succede oggi. Noi siamo un Paese che non ha mai fatto effettivamente i conti con la sua storia: ha chiuso delle saracinesche, un argomento, ma ci sono addirittura personaggi che appartengono al passato e sono ancora qui, nel presente. Scriverne è anche una scelta politica.

Al centro di questo romanzo ci sono tre delitti che rivendicano verità da parti contrastanti. De Luca, dal suo canto, vorrebbe fare semplicemente il poliziotto. Ma in anni così ambigui, oscuri, era davvero possibile non compromettersi, dissociarsi dallo scenario, dalla politicità delle cose?

Col senno di poi non c’era la possibilità di dissociarsi, ma c’era la necessità di fare delle scelte. Io ho preso spunto da un caso reale, quello del vicecommissario Parisi, un poliziotto della Questura di Bologna che, mentre la Brigata Nera faceva le cose descritte nel libro, provò a fare il poliziotto. Ovviamente scelse una parte, quella della resistenza. Dire, invece, come fa De Luca: “sono un poliziotto, faccio solamente questa cosa”, in un particolare momento storico a me sembra abbastanza difficile. All’epoca, nel 1938, essere un poliziotto e fare semplicemente quello che ti veniva richiesto dalla legge significava applicare le leggi razziali e nel 1943 trovare, schedare e arrestare gli ebrei.

De Luca prova questo tormento. Nelle ultime pagine scrive: “Veniva da dentro il freddo che gli stringeva stomaco e cuore. Era il freddo della paura”. Arriva anche per lui la prova della paura?

Sì, quella c’è stata fin dall’inizio. Quando ho scritto “Carta Bianca” avevo in mente un personaggio diverso, uno molto negativo, violento, schierato politicamente. Volevo un poliziotto che facesse tutto a modo suo, ecco perché chiede carta bianca. Poi l’ho sempre messo in una condizione di paura. La parola fondamentale, rileggendo i libri, è proprio paura: ha paura che gli succeda qualcosa. Negli ultimi due romanzi lo metto di fronte alle sue paure per vedere la sua reazione. Da sempre, poi, il mio commissario è ricattabile, come una specie di eroe indebolito. Quella sua debolezza è il ricatto per quello che fatto: ecco perché si vergogna. Ho cercato di comprendere le sue paure, concedendogli un’ultima possibilità: vediamo se riesci a fare la cosa giusta, De Luca.

Più volte ha detto che De Luca è simile a “un certo modo di essere italiani”. Voleva dire che spesso viviamo e agiamo solo nei limiti delle nostre responsabilità?

Sì, è proprio così. Anche lui si astrae dalle sue responsabilità e dice: “noi non siamo quella gente lì che fa quelle cose”. Poi, però, si trova dentro la storia e deve fare delle scelte. De Luca non è schierato, racconto infatti che in Via delle Oche si dimentica di andare a votare. È uno che di politica non sa assolutamente niente ma poi si ritrova complice, protagonista e vittima di quello che la politica sceglie per lui.

Forse il suo Commissario in questo romanzo non ha esattamente coscienza del momento storico che stava attraversando. Se oggi fosse vivo avrebbe qualche scusa per quelle distrazioni?

No, non le avrebbe. Adesso sappiamo dove portano certe cose. Dove porta il razzismo, ad esempio. Se arrivasse ora, De Luca dovrebbe sapere i corsi e i ricorsi della storia e sicuramente avrebbe altri imperativi morali. Anche allora, però, si cominciava a capire bene dove andava a finire il suo essere poliziotto. Dalle leggi raziali in poi lo si capiva molto bene. Le scuse non ci sono mai: né ieri, né oggi.

Lo sfondo di questa indagine è Bologna, in un tempo quasi sospeso. Quanto aiutano le sfumature di una città del genere in una narrazione così?

Bologna si è sempre prestata a tutto questo, è uno sfondo perfetto per un romanzo poliziesco. Da una parte per l’immaginario – i portici, la città che non è quella che sembra, le strette del centro – e dall’altra per la nostra cronaca nera così importante, dalla Strage del 2 agosto alla Uno Bianca.

Lei da sempre ha raccontato il mistero, il lato oscuro delle storie. Nei suoi romanzi però c’è qualcosa di più del giallo impiantato sulla trama, sul banale interrogativo che porta al “chi”: per lei che cosa significa scrivere un giallo?

Esiste una grammatica del romanzo giallo: io racconto una storia misteriosa, che ha a che fare con la metà oscura di un fatto, e non la racconto tutta subito. Questo è il giallo. Il resto è una grammatica, fra i respiri e la suspense. La trama per noi è importante perché è il motore della storia, ma non è tutto. Anche quando facevo “Blu notte”, e De Luigi mi imitava con il suo “paura, eh”, io facevo esattamente questo: creare un racconto attorno al mistero. Il “chi” è importante, ma non è essenziale: è il viaggio quello che conta.

Quest’anno il suo commissario compie trent’anni: era il 1990 quando Sellerio pubblicava “Carta Bianca”, il suo primo romanzo. Quanto l’ha cambiata questo personaggio?

Mi ha dato un senso. Grazie a De Luca, ma soprattutto ad Elvira Sellerio che pubblicò il mio primo libro, sono diventato uno scrittore. Alla fine, è il personaggio su cui ho scritto più cose, su cui mi sono fatto più domande. Non è il più importante, ovvio, ma De Luca è quello con cui sono più in intimità.

Parlava di De Luigi e del suo “paura, eh”. In questi anni molti hanno preso il suo posto raccontando storie di paura in campo politico e sociale. Come si destrutturano le paure incanalate nel dibattito pubblico?

Io ho sempre pensato che la paura sia una cosa positiva, una forma di conoscenza, un sentimento rispetto a una cosa che non ti lascia indifferente. Se la paura viene sfruttata con la conoscenza diventa una risorsa: è la porta socchiusa che vai ad aprire. Quelle chiuse non ci interessano, quelle aperte ci sembra di conoscerle, in quelle socchiuse ci vai a guardare e scopri un mondo. Da questo punto di vista la paura diventa un meccanismo di difesa attiva.

Però non succede nulla di tutto ciò, oggi.

Sfruttata male, infatti, la paura diventa qualcosa di tremendo: ti faccio paura di qualcuno e ti impedisco di conoscerlo. Così tu avrai paura di un marziano che pensi venga da chissà dove, lo carichi di tutte le cose negative della tua vita, e a quel punto il diverso servirà a me agitatore di paure per tenerti chiuso in casa: e tu chiuso in casa fai quello che voglio io.

Nel suo mitico “Blu notte” ha raccontato l’Italia dei misteri e i tentativi di soffocare nella culla la giovane Repubblica: come hanno modificato la storia del nostro Paese questi segreti?

Hanno modificato tanto la storia del nostro Paese. Quelle ferite, quei segreti, hanno aperto la strada a certi problemi che abbiamo ancora oggi. La bomba di Bologna non uccide solo 85 persone, ma un Paese intero. L’Italia è cambiata molte volte perché ci hanno ammazzato qualcuno: avremmo avuto una diversa politica energetica se non avessero ammazzato Enrico Mattei, oppure una democrazia differente senza l’omicidio di Aldo Moro o Wilma Montesi. Ci portiamo questo patrimonio di segreti e, nonostante tutto, l’esempio di tanti che hanno protetto la democrazia.

Dopo tanti anni da questi segreti cos’è più importante: la verità o scoprire perché non si è arrivati alla verità?

Sapere chi è stato interessa per fare giustizia delle vittime. Dopo tanti anni, però, l’importante per il Paese è sapere perché siano successe determinate cose e perché un pezzo dello Stato le ha nascoste. Capire come mai, nel gioco fra guardie e ladri, un pezzo delle guardie ha fatto il ruolo dei ladri. Questo è importantissimo perché dietro ogni depistaggio c’è una motivazione, un senso ben preciso.

Scerbanenco parlava della scrittura come una mano davanti alla locomotiva. Se lei avesse avuto la possibilità di fermare, o almeno rallentare, una delle ferite italiane quale avrebbe fermato?

La Strage di Bologna è la locomotiva che avrei voluto fermare perché quello è un momento di svolta per il Paese, il passaggio fra un mondo di prima e un mondo di dopo. E il mondo di dopo è un attimo prima di quello di adesso. In generale, invece, metterei la mano davanti alla locomotiva della memoria: improvvisamente tutti noi italiani ci svegliamo e ci ricordiamo tutto. Ecco, quella sarebbe una bella cosa.

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