Lo slancio artistico di Dario Levantino e del suo “Cuorebomba”. “Solo chi perdona può amare”

by Marilea Poppa
Dario Levantino con Marilea Poppa

“Sono contento perché penso che il mondo possa essere migliorato solo dalla cultura, per questo credo molto in quello che faccio: mi sento prima di tutto un insegnante, poi uno scrittore.”

Con queste parole un emozionato Dario Levantino ha commentato la vittoria dell’ultimo premio “Leggo quindi sono- Le giovani parole 2019” per l’apprezzatissimo romanzo “Di niente e di nessuno”, che dal 7 Novembre ha un seguito: “Cuorebomba”, anch’esso edito da Fazi editore e in vendita in tutte le librerie italiane.

Uno spaccato estremamente accurato e realista di Brancaccio, all’interno del quale si inscenano le vicende di un adolescente palermitano, Rosario, alle prese con un vita fatta di sofferenze che lo accompagneranno nel passaggio all’età adulta. Bonculture ha intervistato l’autore.

Dieci anni fa lasciavi la tua amata Sicilia e abbozzavi la storia di Rosario, adolescente di Brancaccio (periferia di Palermo) che, tra mille difficoltà, si affaccia alla vita adulta. Quanto ha inciso questa tua esperienza di vita nella stesura dei due romanzi e, stilisticamente, quali differenze possiamo riscontrare?

Mi piace pensare che, quando si è lontani da un luogo o da una persona a te cari, una specie di forza emotiva faccia il suo corso. Ricordo una frase di Modugno che diceva: “la lontananza è come il vento, spegne i fuochi piccoli ma accende quelli grandi.” Con me è accaduto questo. Sulla scorta emotiva di questo sentimento di mancanza ho provato a colmare il vuoto che avvertivo attraverso uno slancio “artistico”, cioè scrivendo la storia di Rosario. Rispetto al primo romanzo mi sento un po’ più consapevole sullo stile da impiegare. In “Di niente e di nessuno” ho lavorato di scarnificazione, tagliando moltissime descrizioni che rallentavano la scorrevolezza della lettura. Questo tentativo di alleggerimento ha portato a un esito positivo, a un romanzo veloce che è piaciuto e che sta piacendo.

Lo scenario che si presenta agli occhi del lettore, come nel primo romanzo, è quello del decadente quartiere periferico di Brancaccio, che tu definisci come un “aborto urbano”, un “non luogo” descritto minuziosamente in tutta la sua crudezza. In Italia le periferie sono ancora oggetto di degrado e isolamento. Come ovviare a questi fenomeni?

Ho voluto criticare una certa politica accendendo i riflettori sulle periferie, di cui solitamente non se ne parla o lo si fa con una dote di retorica, di moralismo o di paternalismo addirittura. Parlando di quel che conta realmente potremmo dire che non c’è traccia di investimenti in ambienti degradati come le periferie italiane. Bisognerebbe sperimentare delle misure accessibili per aiutare quelle famiglie, attraverso spazi di aggregazione che le tolgano dalla miseria: costruire una biblioteca, un cinema o tenere le scuole aperte per più ore non mi sembrano idee folli. Secondo me piccoli interventi di questo tipo farebbero bene alle periferie del nostro paese.

La storia di Rosario ricorda quella di tanti adolescenti che vivono situazioni di criticità legate al contesto sociale in cui crescono. La vita di queste persone sembra inesorabilmente segnata sin dalla nascita.

Non nego che possano esserci rare storie in cui alcuni ragazzi riescono ad affrancarsi dalla violenza, ma purtroppo restano delle belle storie che rappresentano una percentuale irrisoria. Ho avuto la fortuna di nascere in una famiglia benestante ma in periferia, molto vicino a Brancaccio. Quando ero bambino giocavo lì e per questo conosco molto bene quel contesto. Povertà, violenza e ignoranza sono fenomeni all’ordine del giorno e in questo caso le differenze sociali appaiono determinanti. E’ in questi casi che l’articolo tre della nostra costituzione, il più bello, viene screditato dal fatto che queste ultime si avvertano pesantemente. Ho una lettura marxista a riguardo.

Nuove vicende e nuovi personaggi intervengono a cambiare le sorti della dura adolescenza del protagonista. Tra questi, Padre Giovanni, un sacerdote atipico che in parte, oserei dire, ricorda la figura di Don Pino Puglisi. Si tratta di un’analogia o di una semplice suggestione?

Proprio così, ho voluto fare un riferimento a lui, e un po’ anche a Don Milani. Padre Giovanni è a metà tra Don Pino Puglisi e Don Milani, a mio avviso cristiani veri, che hanno interpretato la religione come azione concreta. Azione e coerenza contro una liturgia vuota, priva di alcun significato. Padre Giovanni parlava di religione “quando se lo ricordava” o “quando aveva tempo” anche in maniera un po’ disobbediente.  A un tratto della vicenda sono il disinganno e la rabbia a prevalere in Rosario, che si interroga sulla consapevolezza di Dio e interpella la figura dello stesso prete, che risponde con il silenzio e lascia ben intendere il suo modo di pensare. Una non-risposta che vale molto più di mille risposte.

Dallo stretto legame del protagonista con il mondo del calcio prende forma una riflessione sulla vita: il portiere, ruolo in cui gioca Rosario, deve riuscire a mantenere la rete inviolata dalle insidie della vita, rappresentate dagli attaccanti. Potresti spiegarci meglio questa metafora?

Rosario è un adolescente molto protettivo e impara ad esserlo con sua mamma, che sente la più vittima di tutte le altre figure. Benché non sia forte deve imparare, per difendersi, ad esserlo. Ama il ruolo del portiere perché è una figura che protegge, l’estrema difesa o l’ultimo baluardo. All’inizio non se ne rende conto, ma lui ama parare e proprio per questo il “parare” diventa metafora di vita. Non a caso, il male che si fa in campo gli sembra necessario per difendere al meglio, e questo rappresenta il senso dello sport.

Nella sua complicata quotidianità Rosario si rivede in Oliver Twist, personaggio nato dalla penna dello scrittore britannico Charles Dickens. Cosa accomuna i due protagonisti?

La storia raccontata in “Oliver Twist” ricorda a Rosario la sua di storia, specialmente per la solitudine della vita in un orfanotrofio che a lui sembra una prigione. I libri per Rosario sono come specchi e lui si rivede in queste storie, anche in quelle di Hector Malo che ha scritto “Senza Famiglia” e di Romain Gary, autore di “La vita davanti a se”. Tutti libri che parlano indirettamente di lui.

Italiano e dialetto, mitologia e vita reale. Questi concetti, apparentemente opposti, contraddistinguono il tuo stile di scrittura e si fondono lungo il corso della narrazione. Perché questa scelta?

Adoro la mitologia, parla di storie scritte duemilacinquecento anni fa ma che parlano di noi in una visione estremamente moderna. Rosario parla di quelle figure mitologiche che si vendicano, con la particolarità dell’aggiunta del dialetto palermitano. La vendetta, oggi stigmatizzata, è una forma di giustizia primordiale e questo piace molto al protagonista, che vive in un luogo in cui non esiste alcuna forma di giustizia. A livello linguistico non ho scelto una forma di italiano standard perché a Brancaccio nessuno lo parla. Non volevo un personaggio che utilizzasse correttamente i congiuntivi perché non sarebbe stato affatto credibile.

“Di niente e di nessuno” e “Cuorebomba” si concludono con un messaggio di speranza. Il perdono prevale sul rancore, l’amore sull’odio. Che personaggio troviamo alla fine?

E’ un Rosario a cui il dolore ha insegnato che l’amore vince su tutto. Nel primo romanzo il dolore l’aveva messo a dura prova ma l’amore lo aveva convinto ad accettare un fratello e non più un fratellastro. Nel secondo, invece, perdona la figura paterna e il perdono è un gesto nobile, qualcosa che regali anche a te stesso. La vita gli insegna che soltanto chi perdona può amare e soltanto chi ama ricomincia a vivere a mille all’ora.

You may also like

Non è consentito copiare i contenuti di questa pagina.