Lontananze, l’inventario di poeti e scrittori di Antonio Motta nel segno di Sciascia

by Antonella Soccio

Far diventare l’isolato Gargano, che Anna Maria Ortese ha chiamato “la terra dei coatti”, un polo di attrazione per gli studiosi di Leonardo Sciascia è l’obiettivo di vita del professor Antonio Motta, poeta e fondatore a San Marco in Lamis del Centro Documentazione Leonardo Sciascia e della rivista letteraria “Il Giannone”.

Editore dell’opera dialettale di Joseph Tusiani, Antonio Motta si è dedicato a lungo alla letteratura meridionale e agli scrittori italiani e stranieri che hanno avuto rapporti con la Puglia. Autore di numerosi saggi su Sciascia, ha pubblicato alcune raccolte e antologie, come Oltre Eboli: la poesia (1979); La terra dell’Ofanto (1998); Ritratti esposti. Mostra fotografica di poeti e scrittori pugliesi e non del Novecento (2003).

Qualche anno fa ha dato alle stampe, edito dal Centro Documentazione Leonardo Sciascia Archivio del Novecento, il pamphlet “Lontananze. I poeti e gli scrittori che ho conosciuto”.

Si tratta di 52 cammei, brevi frammenti di ricordi, 52 parzialissimi ritratti personali di grandi nomi della letteratura. Da Andrea Zanzotto a Mario Rigoni Stern. Da Roberto Roversi a Marino Piazzolla, la cui Elegia sull’Himalaya piacque a Maria Zambrano.

L’incontro con i poeti e le straordinarie penne della letteratura sono per Motta un viaggio che si compie nelle segrete gallerie della conoscenza, una ricerca di vita vera.

Con tutti, anche se per fugaci attimi o per circoscritte visite in cui l’organizzazione e la logistica degli spostamenti, degli arrivi e delle partenze in stazione, si intersecano con le esperienze minime delle reazioni quotidiane, Motta intesse una relazione col Gargano sempre al centro, per rendere quello che Pasquale Soccio ha descritto e cantato come “Il Gargano segreto”, una terra po’ meno segreta.

I suoi ritratti sono pennellate eruditissime, che offrono al lettore la possibilità di ritornare sui testi e di approfondire il percorso di avvicinamento ad ogni autore. Ci si perde tra le Scalinate di Piazza di Spagna, lo scoglio di Rodi Garganico detto il cane, i larici di Rigoni Stern e il settimo piano dell’enorme condominio al centro di Foggia in cui viveva il preside cieco del Liceo Bonghi di Lucera. I dettagli geografici, i fotogrammi di vita degli scrittori incontrati in peculiari momenti della loro carriera, i particolari prosaici di questo o quell’autore conosciuto accompagnano i lettori dentro meandri di pagine. Lette o da leggere in potenziali altre vite parallele. È come entrare in una biblioteca e fare scorribande di aneddoti tra gli scaffali di libri.

Quelli di Motta sono un accostamento, degli incontri cercati, studiati e intensamente conquistati, nei quali il colto docente di San Marco in Lamis riversa molto del suo sapere, mescolando dotte suggestioni e citazioni, senza mai scadere nel citazionismo, a lampi di conoscenza, corredati di annotazioni da geolocalizzazioni e di digressioni formidabili. Come quella su Alfredo Bortoluzzi, nell’incontro con Elio Filippo Accrocca.

Antonio Motta

“Anch’io conoscevo bene Bortoluzzi, che dopo tanti vagabondaggi per l’Europa, nel 1952 si era ritirato sulla costa di Peschici. Il suo atelier era un luogo di cultura, forse l’unico in provincia di Foggia dove si respirava un’aria europea”, ricorda.

Mentre tutta l’Italia piange Andrea Camilleri, sono mirabili le parole che Motta dedica ad Elvira Sellerio e al suo studiolo. “Mi ricevette nello studiolo: mi colpì quell’aura antica, un po’ dickensiana. Sul tavolinetto di noce notai lo struzzo Nero su nero di Sciascia con in copertina Specchio di Jindrich Pilecek, un’acquaforte misteriosa che rappresenta una pizza deserta, metafisica come quelle di De Chirico, al centro uno stranissimo prete spinge uno specchio montato su una carriola, in cui si riflettono le guglie di imponenti cattedrali. Chissà cosa cercava donna Elvira in quel libro, che è un ritratto disperato dell’Italia: miseranda, incivile, senza il più il bene comune”.

In quello studiolo, dopo la morte della editrice siciliana, a Motta sembra che Sciascia potesse sbucare da un momento all’altro.

Ed è su Sciascia, infatti, che Motta scrive le sue più belle pagine di ricordi e di riflessioni: quando narra del suo rapporto con l’intellettuale siciliano il suo memoriale colto, il suo elenco di impressioni, carteggi e intrecci di vita con gli scrittori, si tramuta in un’autobiografia avvincente e luminosa. Troppo breve, ma intensissima.

Il racconto dell’adozione de Il giorno della civetta come libro di narrativa nella terza classe della scuola media di Peschici è memorabile.

“Lo leggevo un’ora alla settimana in coppia con i Promessi Sposi. Allora non sapevo dell’ammirazione di Sciascia per don Lisander. Due secoli lontani: il Seicento lombardo e il Novecento siciliano, che in comune avevano il sopruso, i bravi, la mafia. I ragazzi lessero il romanzo come una favola. Uno di loro mi fece notare giustamente che la civetta è un uccello notturno. L’originalità del romanzo era proprio questa. La mafia agiva alla luce del giorno, tutti sapevano, ma per i politici e i potenti del luogo non esisteva”.

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