L’Osceno televisivo secondo Carmine Castoro: una congiunzione fra Barbara D’Urso e l’ISIS

by Gabriella Longo

Leggere un testo di filosofia della comunicazione o di semiotica dei media significa, oggi, ritrovarsi inesorabilmente dinnanzi alla notizia d’un crimine: la morte della tragedia. Nel momento in cui la medialità cancella gli opposti, tutto diventa un frullato di ingredienti che non si riconoscono, una poltiglia indistinta di positività, che giunge agli orizzonti più agghiaccianti quando “Barbara D’Urso” ed “Isis” possono essere scritti vicini e comparire anche sullo stesso rigo.

Questo (e non solo), è il quadro dell’ultimo libro del filosofo del linguaggio Carmine Castoro dal titolo Il sangue e lo schermo, Lo spettacolo dei delitti e del terrore da Barbara d’Urso all’Isis: di quale reo dobbiamo avere più paura? Un testo e un autore molto amati anche dai più giovani, tanto che all’ultima edizione di Lectorinfabula,in un incontro organizzato con le scuole, i ragazzi si sono trattenuti oltre due ore in più rispetto all’orario prefissato.  

Gli studi di Castoro convergono da anni nella stessa amara direzione, che fa luce sulle ragioni di quell’ “oscenità” sostituitasi addirittura alla pornografia, di cui sono rappresentativi famosi format televisivi quali Pomeriggio Cinque, Uomini e Donne, etc, ma dalla quale nessun ambito della comunicazione è esente. Col termine “oscenità” la volgarità non ha niente a che vedere…magari fosse quella, verrebbe da commentare. Attorno ad essa Castoro sviluppa il suo j’accuse, e la intende come “assenza di scena”, ovverosia quando non c’è neppure possibilità d’ illusione – citando Jean Baudrillard – “quando tutto diventa di una trasparenza e di una visibilità immediata, quando tutto è sottoposto alla luce cruda e inesorabile dell’informazione e della comunicazione”.

Noi di bonculture lo abbiamo intervistato.

Il sottotitolo del suo ultimo libro richiama un accostamento ossimorico ma piuttosto forte: “lo spettacolo dei delitti e del terrore da Barbara d’Urso all’ISIS”. Ritiene che risieda in questo una delle cause della sempre più spiccata incapacità di percepire la tragedia nel nostro quotidiano?

Come dissi ospite dalla Gruber in una puntata di “Otto e Mezzo” nel 2018, quando in televisione al male viene sottratta la filiera delle cause, della memoria, delle responsabilità collettive e delle soluzioni socio-politiche per creare un maggiore benessere capendo drammi e bisogni di ognuno, il male stesso diventa un cinico trastullo, un espediente per l’audience, una narrazione stereotipata che ci abitua a vivere cifre profondissime del nostro stare al mondo – come amore, talento, odio, terrore, follia, intimità, comunità – sempre dentro una testualità mediatica ripetitiva, canalizzata, quadrettata come un bersaglio, opaca quando non oscena. Bourdieu diceva: “tragedie senza legami”; Bauman: “legami senza conseguenze”. Il superfluo che forma, ecco l’epitaffio funereo di una tv accalappiatrice e raccogliticcia, che ci regala tremori e suspense col solo fine di accasciare sempre più il nostro senso estetico e le nostre speranze di rivolta.

Ben noti sono i suoi bersagli televisivi. Le chiedo, però, se ritiene che gli stessi meccanismi innescanti l’osceno televisivo, possano applicarsi anche ad altre piattaforme mediali fra le quali Youtube, il quale è diventato quasi il surrogato della tv che fornisce uno spaccato altrettanto sconcertante su format però completamente diversi. Mi riferisco, ad esempio, a video quali mukbang e food challenge, punte dell’iceberg di tendenze agghiaccianti, per le quali ritengo ancora opportuno il termine “banalità del male”.

Assolutamente sì, applicabilissimo, anzi io stesso propongo una visione dell’Osceno sempre più legata ad un concetto di medium espanso, dunque di Mega-Macchina della comunicazione che irrora e si riverbera su tante piattaforme, su tanti registri comunicativi ed emozionali che ricordano la cara vecchia Matrix: un’architettura blindata immodificabile dentro la quale si agita una variazione febbrile di percorsi e contenuti che ci danno l’idea simulata di “libera scelta” e di “progetto individuale”. Mi fanno ridere nelle tante serate che faccio in giro per l’Italia i cosiddetti “neo-casti” della tv, quelli che dicono: io la tengo spenta da anni… Ma poi si scopre che stanno attaccati al telefonino, ai social, al sistema di like e notifiche, o che si vedono sul laptop né più né meno che tutto quello, o gran parte dei programmacci che viaggiano sul classico teleschermo. Tanti format super trash contro la cui estetica diseducativa e rimbambente combatto da anni, come quelli della De Filippi, vivono proprio di spin-off che riguardano il web e che aumentano a dismisura il loro seguito: gruppi su Facebook, fanzine, blog, siti di foto ed eventi con i “tronisti”, casting e quant’altro. E del resto cosa ribatte la D’Urso ad ogni pié sospinto se non i “sentiment” del popolo della Rete e se è stata o meno trend topic su Tweet? E’ una ragnatela, o un tritacarne, sarebbe meglio dire…

In Filosofia dell’Osceno Televisivo parlava, invece, di “ipno-politica” e di “zoo-politica”: in entrambi i casi, abbiamo la sensazione che anche la comunicazione politica d’oggi sia viziata, contaminata, e che manchi totalmente di compiutezza. Allora io mi chiedo, se anche programmi come Piazza Pulita o Le Iene (ai quali fa riferimento per i due neologismi di cui sopra) divengono indistinte arene di “chiacchiere di politichese” e lo spettatore al di qua dello schermo, rassicurato da quel nulla, persevera nella sua de-responsabilizzazione, quali potrebbero essere le (ulteriori) derive di questo mancato scambio?

Viviamo lo stadio più intenso e scivoloso di una violenza di secondo tipo che, ingranata sulla società dello Spettacolo, il gossip, la futilità esportata quotidianamente dalle “celebrità” della tv, lo scollamento emotivo e prassico delle masse immerse nella realtà virtuale, il pubblicitario come unico motore attivo delle coscienze, non ha fatto altro che portare a una erosione delle nostre facoltà logiche e delle attitudini etiche più stratificate, a una preoccupante riconfigurazione cognitivo-comportamentale. Quella che personalmente definisco non più solo una Economia globalizzata, ma un’Economedia o Econometria: ritmica della vita strutturata sull’assiomatica dell’egoismo competitivo e della manipolazione delle percezioni e delle intenzioni per via mediatica. E questo tocca ormai tutti gli ambiti della conoscenza e della vita collettiva, dalla “politica” in senso stretto a tutte le emergenze sociali, otturando e illanguidendo – come le etimologie della parola Osceno ben mettono in evidenza – il nostro senso della libertà e l’urgenza di riscrivere incessantemente il tempo che viviamo.

“Ipertrofia dei linguaggi scientifici”, dice ad un certo punto. A me viene da pensare alla attuale incomunicabilità che c’è in Italia fra formazione umanistica e esigenze del mercato lavorativo, nonché al progressivo depotenziamento della “condizione umana” nella post-modernità (per semplificare: studiare Kant fa forse aumentare il PIL di un paese?). Dunque le chiedo, che rilevanza assume oggigiorno quel “capitale intangibile” di cui ci si percepisce sempre più orfani?

Un significato sempre importantissimo, ma al quale forse ci rivolgiamo più per nostalgia e disperazione, sapendo che viene sistematicamente e premeditatamente dissipato. Siamo di fronte a un “uomo modulare”, come sottolinea lo psicanalista argentino Miguel Benasayag di cui stimo le opere, un individuo declassato ad assemblaggio di pezzi modellizzati secondo un’ottica calcolatoria e riduzionistica, biologizzato e de-solidarizzato, che fa della perdita di sé e degli orizzonti di senso il suo “esoscheletro”, la sua armatura tutta numeri, catalogazioni, tecno-economia e digital life, cui adattarci senza troppi compromessi. Lei prima citava il fenomeno delle Mukbang: cosa sono se non un feticistico divertissement legato alla visione di un corpo trasformato in discarica di junk food, che esiste solo come forza mandibolare e digestiva, come performance gastrica e nulla più, senza nemmeno pensare che quello è cibo pattumiera e fa malissimo in quelle dosi e con quei tipi di cottura? Serve invece un risveglio profondo della consapevolezza della nostra condizione umana, che è eterna e inaggirabile.

Fra le possibili soluzioni a tutto questo, vi è l’”odio critico”, ovvero quella capacità critica che permette di frapporre fra noi e il bombardamento del nulla un filtro di protezione. Come si (ri)acquista? Come ci si difende praticamente dall’assenza di scena?

Ritessendola faticosamente e ancor più eroicamente del passato, sapendo che oggi sono milioni le distrazioni e le lusinghe, i collassi e le tachicardie del sistema della comunicazione che minano alla base la nostra possibilità di riflessione, di critica e di riformulazione di un mondo possibile. Atmosfera particolarmente scoraggiante se guardiamo come si muovono, esprimono e orientano i giovani, fuori e dentro la scuola. E scoraggiante anche per noi filosofi che vediamo ogni giorno il pensiero e la parola naufragare. Serve una ri-simbolizzazione profonda del reale, una ri-domiciliazione delle forze oscure della natura umana e una ri-socializzazione in insiemi umani che facciano da laboratorio di creatività e non da platea di ebeti al servizio dei conduttori e delle conduttrici guru che ci piallano il cervello. Serve soprattutto dimenticarsi, a mio avviso, delle centinaia di ore proposte in tv ogni mese dalla D’Urso e dalla De Filippi, pericolosissime catalizzatrici delle nostre emozioni.

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