L’ultima notte di Raul Gardini di Gianluca Barbera: qualcuno doveva scrivere il romanzo di Tangentopoli

by Francesco Berlingieri

Gianluca Barbera
L’ultima notte di Raul Gardini
(Chiarelettere)

Gli uomini – gli esseri umani – si innamorano del tempo. Del tempo vissuto, dei tempi andati. Di ciò che ha reso unico – grandioso o squallido – il proprio occasionale vissuto.
E questa è un’ovvietà.

Un paio di settimane fa, scorrendo le pagine di una rivista “di settore” dedicata alle novità letterarie, mi sono imbattuto nella copertina de “L’ultima notte di Raul Gardini”, di un Gianluca Barbera che non conoscevo. Il sottotitolo recitava: “Il giallo di Tangentopoli”. Senza rendermene conto, ho ripensato a quei mesi. Tempi incredibili, di edizioni straordinarie del tg, di inviati con l’ombrello, di avvisi di garanzia, di divinità che cadevano dall’Olimpo degli intoccabili causando un piacevole senso di rancoroso risarcimento. Ho rivisto il diciassettenne che ero intento, sulla riva di Rete 4, ad attendere i cadaveri di una classe dirigente. Imprenditori, assessori, manager, consiglieri comunali: tutto faceva brodo. I gruppi rock scrivevano canzonacce di tardiva protesta senza prospettiva. E noi eravamo i giovani, i giovani, i giovani del Surf.
Gli uomini – gli esseri umani – si innamorano del tempo.
E, in men che non si dica, ho pensato di volere il libro di Barbera. Di averne urgenza. E l’ho ordinato.

L’ho cominciato su un Ryanair, sospeso tra Palese e Fontanarossa. L’ho finito a terra, una settimana dopo, in un soggiorno dalle parti dello stadio, alla luce al led di una piantana Ikea. L’ho chiuso con una domanda affiorante.

La domanda è: perché?
E il guaio di certi quesiti è che avrebbero una bell’esistere nel rimanere irrisolti. Ma assai più spesso capita che la risposta sia svergognatamente evidente, sfacciatamente sotto gli occhi di tutti, allocchi compresi: il mercato, bellezza! Il mercato – onnipresente – che, ruffiano, asseconda l’innamoramento degli uomini – degli esseri umani – per il tempo trascorso, per i tempi vissuti. E per ciò che li ha – grandiosamente o squallidamente – caratterizzati.
Qualcuno doveva scrivere il romanzo di Tangentopoli. Qualcuno doveva creare una cornicetta per ricapitolare gli eventi, nella peggiore tradizione dei film “d’inchiesta” di casa nostra. Doveva. Perché uno come me decidesse che era il caso di spendere diciotto euro e sessanta centesimi per inabissarsi, ancora un po’, in quel tepore da vasca da bagno emergenziale, con i polpacci a mollo in quel confortevole stravolgimento provato, vissuto in quel 1993 di manette e collegamenti dal Palazzo di giustizia di Milano.

Sono stato un allocco. Ho ceduto al richiamo di un’insegna luminosa. Lampeggiante.
Mea culpa.

Eppure, a livello “letterario”, il quesito resta. Anzi, si ramifica.

Gli italiani hanno una passione smodata, quasi perversa, per i misteri. Vivono la loro esperienza terrena percependosi pedine di un inestricabile complotto. Ostentano furbizia, ma giungono al punto di rottura della saggezza di credersi marionette in uno scatolone, mossi da un’eminenza grigia di cui non sa niente ma di cui si possono riconoscere gli intenti solo ex-post. Da Loriano Macchiavelli a Giancarlo Di Cataldo, è tutto un calco del pasoliniano sapere senza avere le prove. Gli scrittori italiani scelgono la forma-romanzo in luogo del più asettico ed impegnativo saggio. Inventano storie collaterali di investigatori mai esistiti, di detective e giornalisti. Indugiano sulle loro vicende personali, sulle loro storie d’amore e sul menu delle loro cene. Scavano il buio con un cucchiaio da minestra. Creano nello sprovveduto lettore l’aspettativa di una rivelazione che, col trascorrere delle pagine, non si decide a manifestarsi e, anzi, tende a sparire dietro il separé delle vicende personali del protagonista. Alla fine dei romanzi italiani che provano a misurarsi con la nostra sanguinosa e sventurata storia recente non c’è mai alcuna rivelazione. Nei romanzi italiani che non parlano di commissari e delitti nei portoni, non c’è niente. Se non il solito campionario di congetture, di ipotesi non provate, di non detti, di allusioni a politici senza nome di cui è pietoso e saggio evitare la querela. Alla fine di questo “giallo di Tangentopoli” c’è la sensazione di aver perso tempo nella ricapitolazione di ciò che sapevamo già. C’è un sentore di premessa non rispettata. C’è la domanda: perché? Perché gli scrittori italiani sono così pigri e piegati al consumo senza avvertire, sulla pelle, il brivido tentatore dell’immortalità? Perché nessuno di loro – fa eccezione il solo Lagioia, a mio avviso – decide di guardare oltre l’immanenza per mettersi a fare letteratura e colmare di parole un cratere nazionale? Per raccontare un paese. Anche senza assecondarlo nella spasmodica ricerca di un re del mondo. Che ci tiene prigioniero il cuore.

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