L’umana Eneide di Andrea Marcolongo: “Di fronte alle macerie Enea ricostruisce”

by Felice Sblendorio

Interroga e scava un solco profondo nelle nostre fragilità la rilettura dell’Eneide della scrittrice Andrea Marcolongo, studiosa del mondo classico, autrice di un bestseller tradotto in 28 Paesi come “La lingua geniale” e ghostwriter fino al 2014 di Matteo Renzi. “La lezione di Enea” (Editori Laterza, 216 pagine, 16.00 euro) è un libro appassionato e appassionante sul poema virgiliano, analizzato con uno sguardo epurato dai trionfalismi epici e dalle rituali storture interpretative. In un percorso che smonta per negazioni alcuni luoghi comuni, Marcolongo mette a nudo più l’uomo che l’eroe, enfatizzando la sua capacità di ricostruire nella tempesta, il suo senso del dovere nella crisi, il suo talento per la misura. Un eroe che circoscrive certezze e virtù, che viaggia da una città in fiamme per fondare una patria, facendosi carico di un dolore che è sempre uno spaventoso scandalo e un’assordante perdita.

Più che tratteggiare i ripetuti elementi caratteristici del poema – il profugo Enea, il legame generazionale fra il vecchio padre e il giovane figlio, Didone donna abbandonata e sola – Marcolongo restituisce al lettore la politicità sommersa del poema di Virgilio. Una politicità che ricorda che c’è sempre qualcuno che ha il compito di ricostruire, di risarcire un danno, di ricomporre le fratture che ogni tempesta che ci attraversa produce. bonculture, in occasione del festival Lectorinfabula, ha intervistato da Parigi Andrea Marcolongo.

Spesso è scontato parlare della nascita di un libro, ma quando tutto parte da un rifiuto iniziale non lo è affatto. L’Eneide quando ritorna nella sua vita?

Questo libro nasce idealmente prima dei miei lavori sul greco antico. Partivo sempre da una domanda: l’Eneide mi piace o mi annoia? Il poema di Virgilio mi è sempre risultato indifferente, ma nel tempo ho annotato idee e pensieri. Il proposito di lavorarci su l’ho rimandato fino allo scorso febbraio quando ho sentito l’urgenza di riscoprire un manuale di istruzioni per dare senso a tutto quello che stavamo vivendo. Quel manuale, utile a gestire una fase che non è più un prima ma non è ancora un dopo, per me è stato l’Eneide.

Sostiene idealmente che ci siano libri adatti ai momenti di pace e libri utili nei tempi agitati dalla storia. Durante la pandemia ha scritto di Enea: una prospettiva giusta?

Ho capito dopo tempo che l’Eneide non è un poema adatto ai tempi di pace. Quando le cose vanno bene, infatti, è più che legittimo e umano scegliere chi essere e cosa vivere nel catalogo degli eroi di Omero: l’avventura di Ulisse oppure le grandi emozioni di Achille. Quando le cose vanno male, come in questo periodo, abbiamo bisogno della serietà di Enea. È stato sempre così, fin dall’inizio. Mentre Virgilio scriveva l’Eneide viveva il passaggio fra la Repubblica di Roma e l’Impero. Quando il Medioevo si imponeva e l’Impero Romano crollava, nel prima e nel dopo il poema ritornava prepotente. L’Eneide, per usare una metafora, è un manuale di istruzioni su cosa fare nel caso di crisi: istruzioni necessarie quando tutto va male.

La lezione di Enea è la gestione della tempesta?

È proprio questo. Amo molto la definizione di gestione della tempesta. Il poema ha il coraggio di dirci che, pur non sapendo come cominciare, si deve fare qualcosa. Durante la tempesta non sono ammesse furberie, scatti di fantasia, improvvisazione. Durante la tempesta si fa sul serio. 

Una serietà che lei collega alla pietas di Enea, ovvero il suo senso del dovere.

Io realmente non avevo mai capito cosa volesse dire pietas, perchè la parola è quasi intraducibile. O la si traduce con significati religiosi, oppure l’idea di bontà è molto lontana dal senso originale. Pietas vuol dire fare le cose come si deve, cercare di farle bene e rispettare quello che ci è stato consegnato da chi ci ha preceduto.

In quel viaggio nel Mediterraneo con il suo vecchio padre e con suo figlio, neanche l’angoscia del dolore ferma Enea. Per lei il dolore non ha nessuna eroicità narrativa: né edifica, né migliora. L’atto eroico è superarlo?

Il dolore è ineliminabile dalla nostra vita. Enea è molto schietto. Nessuno si mette in viaggio se non è costretto: lui a Troia, nel suo prima, stava bene. Nessuno immagina un dopo se non è obbligato a farlo e se non ha una casa che brucia. Allo stesso tempo Enea non ci illude che tutto andrà bene, che ne usciremo migliori. Si limite a dire: ne usciremo, dobbiamo uscirne.  

Nei poemi epici molto spesso i grandi eroi piangono. C’è una differenza fra le lacrime di Enea e quelle di Ulisse?

È uno degli aspetti rivoluzionari dell’Eneide rispetto al repertorio della mitologia classica in cui gli eroi piangono molto e versano fiumi di lacrime. Ulisse quando è sull’isola di Calipso guarda il mare e singhiozza nostalgico. Enea soffre tanto, vorrebbe piangere, ma quelle lacrime non hanno il tempo di maturare perchè non può permettersi il lusso di soffrire. Questo poema ci insegna che, a volte, soffrire è un lusso. Lui può solo continuare: perchè non è solo, perchè ha la responsabilità collettiva di una ricostruzione e perchè deve portare in salvo la sua famiglia e la sua identità.

Il latinista Gian Biagio Conte ha scritto che Enea è un personaggio a “statuto doppio”: il senso del dovere e il desiderio personale convivono drammaticamente. Cosa prevale? 

Io sono molto d’accordo con Conte. Enea non è né il burocrate del fato, cioè colui che non sceglie nulla a livello individuale e segue le indicazioni fino a Roma, né ovviamente l’Achille della situazione. Forse non è neanche un eroe nella visione omerica o contemporanea. Lui è semplicemente un uomo che ci prova. Di fronte alle macerie, che non ha causato personalmente, Enea ricostruisce.

È allergica alla parola eroe? 

Sì, ho sviluppato una sorta di allergia nei confronti della parola eroe. Condivido le parole di Carver quando dice che non esistono gli eroi. Enea ci dice proprio questo: gli eroi non esistono.

Non c’è nulla di bello nell’essere eroe?

È una figura comoda quando tutto va bene, ma quando arriviamo alla prova dei fatti scegliamo sempre gli uomini. Alle passioni e alla curiosità di Ulisse, Enea ci sorprende insegnandoci come sia liberatorio e umano aver paura. 

Paura del dolore, soprattutto. Lei scrive che l’Eneide ci aiuta a circoscrivere le nostre certezze: quali?

Che soffrire è terribile, è scandaloso. Nessuno dotato di senno sceglie di soffrire. Anche quando il dolore scuote la nostra vita non bisogna fermarsi perchè non c’è mai una soglia che indica un troppo dolore. Il dolore non è un curriculum che si può esibire. 

Il protagonista di questo poema è un profugo, ma lei allarga molto il significato di questa figura. Siamo tutti profughi?

Quando Virgilio utilizza la parola profugus la intende proprio nel senso etimologico: colui che è in fuga. Nel mondo che abitiamo c’è lo scandalo di chi è in fuga geograficamente da una terra o da una situazione inaccettabile e c’è lo scandalo di chi è in fuga da sé stesso, da un dolore, dalle ingiustizie o dal proprio passato. 

Dedica molte pagine a Didone, quella donna «in rovina e abbandonata» come scrisse Ungaretti. Il suo ritratto, però, è completamente differente.  

Sono partita dalla considerazione che esistono analisi molto dettagliate, lucide e profonde sulla psicologia dei personaggi maschili del mito classico, mentre i personaggi femminili sono sempre un ridotti a delle figurine: Didone abbandonata, la bella e seducente Elena di Troia, Penelope che attende. La storia di Didone è molto più complessa. Virgilio è molto preciso: lei non è solamente la principessa abbandonata dal principe azzurro, ma è molto di più. 

Che cosa? 

Quando incontra Enea questa donna è incapace di decifrare il reale. Ha già deciso di non concedersi più l’amore e la felicità perchè secondo lei non è legittimata ad accogliere l’amore di un uomo. Enea, dall’altro lato, è molto chiaro: le dice che a Troia era felice, ma è a Roma che deve andare. Non la seduce, non le promette nulla, non consolida certezze. In questo realismo lei è come se si perdesse in un innamoramento che non è il solito colpo di fulmine, ma è qualcosa di più triste e oscuro. Didone proietta una speranza d’amore che Enea non può darle. Il gesto del suicidio è l’unico modo che ha per essere presente a sé.

Un problema attuale?

La storia di Didone ci insegna che la violenza non è solamente l’atto concreto, ma è tutta quella complessità sommersa nelle relazioni. C’è bisogno di più supporto. 

Dedica questo libro al suo Paese, l’Italia. Da anni, però, viaggia in giro per il mondo. Un girovagare per viaggiare oppure per fuggire? 

Sono molto contenta di dirle che non girovago più: sono nella mia casa di Parigi e ho trovato la mia stabilità. Questa distinzione che lei evoca, però, è fondamentale: spesso mi sono trovata a girovagare e vagabondare perchè non avevo la mia Itaca che, col tempo, ho imparato a costruire. 

In un presente disordinato le parole ci sembrano stanche, inadatte a testimoniare la nostra condizione. Una parola da riscoprire? 

La parola certezza. Non importa quale sia, ma è importante avere un perimetro, un confine. Un perimetro all’interno del quale non si può più improvvisare. Oggi viviamo un presente ingarbugliato, privo di confini. Se non costruiremo un perimetro comune sarà difficile ritrovare le nostre certezze.

Senza un perimetro non un c’è progetto, non c’è futuro. 

Esatto, non c’è futuro. Nessuno può progettare una casa senza avere uno perimetro che la contenga. 

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