Napoletanità o napoletaneria? Il viaggio di Gigi Di Fiore nell’anima di un popolo

by Michela Conoscitore

Spiegare Napoli, la vera Napoli, a chi è a digiuno di napoletanità e, invece, quasi ogni giorno fa indigestione di napoletaneria. Questo è il compito che si è assegnato Gigi Di Fiore, scrittore e giornalista del quotidiano partenopeo Il Mattino, con Napoletanità – Dai Borbone a Pino Daniele, viaggio nell’anima di un popolo (pp. 372, 18 €, UTET). Il viaggio inizia proprio dalle scrivanie del giornale, nella sede storica di Vico Rotto San Carlo prima, e di via Chiatamone poi, perché Il Mattino è uno degli aspetti, svelati e sviscerati, di quell’identità scippata alla città, mancanze raccontate con affetto e malinconia da Di Fiore.

Ripercorrendo momenti, storici e simbolici, narrando di personaggi che hanno contribuito a rendere la personalità di Napoli più multiforme e complessa, il giornalista mette nero su bianco i torti subiti non soltanto da una città ma, da un popolo che non si è mai piegato a nulla, nemmeno quando fu portato a mendicare non soltanto il pane, soprattutto il rispetto. Un elenco di ‘poteva essere e non è stato’ che Di Fiore stila con lucidità e disincanto, perché non (si) nasconde nulla, nemmeno l’odi et amo per la sua città, “bella e impossibile”, comune anche a tanti napoletani che vivono lontano da essa.

bonculture ha intervistato Gigi Di Fiore per scoprire non soltanto Napoli e il suo popolo, ma anche un sud in cerca di riscatto e di una chiave di lettura del passato, necessaria per una memoria storica veritiera.

Napoletanità o napoletaneria: cosa abbonda di più a Napoli, e fuori Napoli, oggi?

Da quello che vedo, a Napoli ma anche fuori, è la napoletaneria che prevale. La sguaiataggine, l’esasperazione del becero e del luogo comune su Napoli dominano. Basta guardare alcuni programmi televisivi che fanno audience e vendono bene un tipo di napoletano da napoletaneria esemplare: volgare, furbo, sguaiato, urlante. La napoletaneria fa ascolti più della napoletanità che è invece senso della propria storia, della propria identità, della propria cultura.

Il sottotitolo del suo libro è “viaggio nell’anima di un popolo”: con quali parole un napoletano come Lei può descrivere e spiegare la sua gente ai non – napoletani?

Un condensato di contraddizioni ed eccessi nel bene e nel male, che si tengono insieme da secoli.

Nel suo libro ha raccontato Napoli attraverso dei simboli: la storia vera dei regnanti borbonici, il Banco di Napoli, Il Mattino, Pino Daniele, ribaltando gli scontati e offensivi pizza-mandolino-camorra. C’è ancora necessità di fornire o rammentare esempi positivi per credere alla grandezza di questa città?

Purtroppo, le vicende raccontate nel mio libro non sono tutti esempi a lieto fine. La triste parabola del Banco di Napoli o del Mattino sono storie emblematiche di una perdita di centralità della città in quasi tutti i settori che in Italia contano. Vedo oggi una Napoli che si culla nel suo passato, ma non riesce a pensare ad un suo progetto di futuro che vada oltre l’effimera e caotica presenza delle migliaia di turisti che l’affollano tutto l’anno.

Celestino Galiani, mio conterraneo, Nicola Miraglia, Francesco Nitti, Benedetto Croce, sono solo alcuni dei protagonisti che racconta nel libro, e li accomuna una caratteristica: non sono napoletani. Lo dico da pugliese: Napoli è da sempre molto presente nell’immaginario collettivo di tutto il meridione, ha sempre elargito generosamente ovunque e qualunque bene, coinvolgendo tutti per una crescita a trazione condivisa. Quindi, si può dire che il suo libro con Napoli, celebra tutto il sud?

Sicuramente, d’altro canto una città che è stata capitale di un regno del sud si identifica con quella parte d’Italia. Il regno di Napoli, le cui vicende sono state magistralmente descritte da Benedetto Croce, non era certo limitato alla sua capitale. Descrivere e raccontare Napoli significa puntare i riflettori sul luogo più emblematico e noto dell’intero Mezzogiorno, per esaltare la storia di tutta questa parte dell’Italia cercando di ripensarne il futuro di cui i meridionali hanno bisogno di diventare artefici, senza adagiarsi passivamente in attesa di interventi esterni e senza piangersi addosso.

Emozionanti le pagine dedicate alla storia del quotidiano partenopeo, Il Mattino: tra quelli che lo hanno reso uno dei giornali più preminenti a livello nazionale, c’è stato anche Ferdinando Russo, sconosciuto ai più. Un dandy dal cuore tenero, perché parlare approfonditamente di lui in Napoletanità?

Ferdinando Russo è stato il primo capocronista del Mattino. Poeta, autore di canzoni della tradizione napoletana, tra i protagonisti degli anni d’oro vissuti da Napoli alla fine dell’800 in una stagione culturale in cui alla centralità di Croce si univano poeti come Di Giacomo e lo stesso Russo, autori di canzoni come Bovio, musicisti, commediografi come Scarpetta padre naturale dei fratelli De Filippo. Di questo clima, Russo era parte integrante ed era giusto farne il faro per raccontare il Mattino nella sua fase d’avvio.

Instillano sdegno e dispiacere i capitoli dedicati al Banco di Napoli e al passato industriale partenopeo, da Pietrarsa all’Italsider: dove e quanto si è sbagliato in quei frangenti, ma soprattutto Napoli potrà mai ricominciare in quegli ambiti?

Purtroppo, con Pietrarsa e l’Italsider è crollata la speranza di uno sviluppo industriale per Napoli. Era il sogno di Ferdinando II di Borbone, ma lo fu anche di Nitti agli inizi del ‘900. Fu proprio Nitti a pilotare la legge speciale per Napoli che favorì l’apertura dell’Ilva poi Italsider. Chiudendo la grande fabbrica, è morta la cultura operaia, l’argine della dignità del lavoro, la barriera all’invasione dei clan della camorra che ora si sono diffusi anche in quel quartiere. Non vedo futuro industriale per Napoli, e le macerie del quartiere Bagnoli, mai risanato né bonificato nonostante le intenzioni e i tanti progetti, lo dimostrano. Anche la storia tristissima del Banco di Napoli, per oltre quattro secoli orgoglio del potere finanziario autonomo cittadino, è emblema della perdita di centralità della città. Il Banco è oggi parte del più grosso gruppo bancario italiano che lo ha accorpato, dopo una parabola discendente con troppi aspetti poco chiari, che ha rappresentato un’ulteriore perdita di identità cittadina.

Napoletanità è diviso in tre sezioni: l’orgoglio del passato, l’identità scippata e l’ansia del riscatto. Se il suo libro andasse incontro ad una ristampa o un’edizione speciale, diciamo tra dieci anni, quale sezione vorrebbe aggiungere?

“Il futuro incerto” chiamerei il capitolo aggiuntivo, per raccontare l’assenza di idee sulle prospettive della città, sballottata tra pulcinellismi e astruse rivendicazioni. Il luogo Napoli è in preda all’assenza di un gruppo dirigente che pensi a cosa volerne fare con strumenti adeguati, bloccando la caduta in basso verso una napoletaneria che sembra compiacersi di sé stessa.

Come Lei, concludo anche io con Pino Daniele. Durante un concerto disse: “Non mi sento più nel ghetto, non ci sentiamo più nel ghetto. Perché lo sapete che sono napoletano. Siamo usciti ormai dal ghetto, è finita”. Come la interpreta questa rivendicazione, e concorda con Pino Daniele?

Era il riconoscimento che Napoli, la sua cultura, la sua musica sono da tempo uscite fuori dal ghetto del provincialismo per diventare patrimonio universale. Sull’identità e la cultura che Napoli ha espresso e esprime nella sua vivacità, che è sempre figlia delle contraddizioni e delle difficoltà che incontra chi ci vive, sono d’accordo con Pino Daniele. Il vero problema resta il luogo fisico Napoli, come dimostrano i tanti, vedi proprio Pino Daniele, che pur portando quella cultura e quella identità dentro sé stessi come fonte d’ispirazione, sono fuggiti dalla città non riuscendone più a vivere la quotidianità.

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