Nel giorno che incombe di Antonella Lattanzi: «Per non subire la cronaca bisogna attraversarla»

by Felice Sblendorio

Nella quarta di copertina del nuovo romanzo di Antonella Lattanzi c’è un dilemma che paralizza tanti, da sempre: «Come esplode una vita intera?». In “Questo giorno che incombe” (HarperCollins, 456 pagine, 19.50 euro), la scrittrice barese ha intrappolato in un romanzo intenso e strutturalmente complesso una riuscita contaminazione di generi letterari per raccontare un gruppo di vite esplose a seguito di una tragedia.

Il fatto, liberamente ispirato a un episodio di cronaca accaduto a Bari nel palazzo in cui l’autrice è cresciuta, è l’epicentro narrativo di un racconto nero che si trasforma in una metafora per parlare di male, possessione, maternità, sguardi, autodeterminazione. In questo giallo che si espande nella più perturbante tradizione letteraria parlando della misteriosa scomparsa di una bambina, Lattanzi racconta il Giardino di Roma, una comunità, e Francesca, una persona, che sente dentro di sé l’angoscia di un cambiamento e l’indicibile confine che separa il male dall’innocenza e il giusto dall’errore. bonculture ha intervistato Antonella Lattanzi.

Racconta che il fatto di cronaca che ha ispirato questo libro nella sua famiglia veniva chiamato «l’incidente». Perché è sempre così difficile nominare il male?

Mettere in parola qualcosa rende quel qualcosa reale. Nel momento in cui diciamo queste parole che non vogliamo sentire, è come se lo scuro si dischiudesse davanti a noi. Usare parole dolci per raccontare avvenimenti più truci è un modo che l’essere umano ha per allontanarli da sé. Ci sono delle situazioni in cui usare questo tipo di racconto può essere giusto e utile per superare un trauma, e poi ci sono dei momenti in cui non dire le parole giuste o le cose come stanno fa del male perché si dimentica la forza crudele della realtà.

Questa è una storia che arriva dal suo passato: un’eredità da cui non ci si libera mai?

Nessuno si libera mai dal proprio passato perché ci sta sempre addosso. Anche quando ti sembra di esserti emancipato, ci rimani dentro. Quando si scrive, soprattutto di eventi completamente lontani da noi, il reale si mette in forte contatto con il proprio passato, con le piccole cose che ci diciamo ogni giorno per continuare a vivere. La scrittura, così, apre una sorta di tunnel fra te e il mondo, facendoti sentire in maniera più forte tutti gli eventi che hai vissuto, che ti hanno attraversata.

Il titolo del romanzo cita Shakespeare: “Questo giorno che incombe”. La frase, dal Giulio Cesare, continua: «Ma basta che il giorno finisca e la sua fine è nota». Non riusciamo mai a capire i segni premonitori delle tragedie che ci colpiscono?

Forse, se li volessimo vedere. È chiaro che in alcune situazioni c’è un alto fattore di rischio. A volte calcoliamo i nostri passi, mentre altre volte siamo così concentrati a fare quello che vogliamo, che i segni attorno a noi nemmeno li vogliamo vedere. Non li vediamo per non mettere a rischio i nostri progetti, la nostra vita.

La realtà quanto riesce a decostruire di una persona?

In esergo ho citato Proust: «La realtà è il più abile dei nemici, lancia i suoi attacchi nei punti del nostro cuore dove non li aspettiamo, dove non abbiamo preparato una difesa». Credo sia vero: la realtà ti colpisce dove tu non avevi pensato che avrebbe potuto colpirti. Francesca, che si ripete di restare con i piedi per terra, non vuole rimanere dentro la realtà, perché la sua realtà non fa per lei. È un personaggio che, attraverso una serie di accidenti, riesce a capire che tutto ciò che si era costruita non era quello che desiderava. Servirà uno sforzo di fantasia per costruire una vita nuova.

Si parla molto di una maternità problematica e c’è una voce immaginaria che sottolinea questo problema. Una madre, come nel caso di Francesca, è una somma di tutte le possibili mancanze?

Francesca parla con la casa in cui vive perché è rimasta sola: si è trasferita da Milano a Roma pensando di trovare una libertà che, in quel condominio, perde. Quella voce potrebbe essere uno spirito, oppure la voce di tutte le madri e i padri che ti dicono come deve essere una brava madre, una brava persona. Credo che nel momento in cui si diventi madre, continuamente c’è qualcuno che ti giudica. Francesca sente su di sé quel giudizio e vive questo lato oscuro della sua maternità. Quando ritraccia anche i lati oscuri della maternità di sua madre, comprendendo che c’è una persona oltre alla figura genitoriale, allora si perdona. In quel momento capisce che non è sola.

Il male non infesta solo le persone, ma anche le case, il condominio, il giardino di Roma. I luoghi consumati dal male trattengono per sempre quell’ombra?

Sì. Una volta che il male tocca un luogo, in qualche modo quel male ci rimane. Non per una possessione di qualche tipo, ma perché quel posto vergine è stato sfibrato dal dolore. Stevenson ha scritto: «Certi giardini stillanti reclamano a tutti i costi un delitto; certe vecchie case esigono di essere popolate da fantasmi; certe coste sono messe da parte per i naufraghi. Sembrano ancora in attesa della leggenda giusta». Credo sia vero: quando il male attacca un posto, la memoria di quel male rivive. Così, chi ha vissuto quel male non può più essere innocente, anche solo per il fatto di essere a conoscenza del male accaduto.

Al centro di questa storia c’è la scomparsa di una bambina. Il tempo della scomparsa è il regno dell’incertezza, di quel possibile che si trasforma spesso in un improbabile destino.

Ho studiato tanti casi di scomparse per capire in che modo la scomparsa si riflette su chi è rimasto. Quando una persona muore ti disperi, ma hai un corpo, un posto, una storia. Uno scenario orrendo, invece, si spalanca davanti a chi ama una persona scomparsa perché, semplicemente, non esiste più il tempo. Se passano 5, 10, 30 anni non importa: il dolore rimane uguale. Si ritorna e ci si ferma sempre lì: al giorno della scomparsa, al momento in cui abbiamo perso di vista quella persona.

Scrive: «Cos’è una notte in cui non sai dov’è tuo figlio?». Riesce a immaginare una risposta?

No. Credo che per un genitore non ci sia risposta a questa domanda. Forse perché quel tragico evento lo si riconduce a un fallimento della cura genitoriale. Credo solo che le notti ad aspettare un figlio che non c’è siano le più infernali…

Cosa la affascina della cronaca nera?

A me piacciono molto i casi di cronaca nera non per il fatto in sé, ma perché raccontano visceralmente la società o un pezzo di realtà. Nella cronaca c’è un nucleo costante che riguarda tutti. Non c’è una sola verità, perché ci sono tanti portatori di più punti di vista che, spesso, fanno mutare quella presunta verità. Mi colpisce questo: la realtà esiste, mentre la verità no. Credo sia importante ritrovare in questa distinzione un barlume di luce nelle personalità più nere, per raccontarle al lettore da più punti di vista e con più sfaccettature.

In queste pagine riecheggia con ferocia una figura apparentemente estranea a noi come quella del mostro. Ma chi sono i mostri?

Siamo noi: abbiamo tanti mostri dentro e passiamo tutta la vita a cercare di combatterli e superarli. Alcune persone ci riescono, altre no. È questo uno dei motivi per cui mi interessa tanto il nero: perché tutti siamo in grado di superare quel limite, ma ringraziamo ogni giorno per non averlo fatto. Il mostro racconta sempre una parte della nostra umanità.

Come ci si tiene lontani da quel limite?

Conoscendosi. Se riusciamo a conoscerci nel profondo, forse, siamo in grado di non superare quel limite.

A volte sembra che il reato annulli la persona, oppure annulli definitivamente le possibilità (altre) di quella persona. Non si smette mai di essere mostri?

Mai. Nel momento stesso in cui si entra nel gorgo della cronaca nera è difficilissimo uscirne, ed è difficilissimo uscirne come persone. Non ti verrà più permesso di raccontarti come sei, ma ci sarà sempre un’etichetta per te a spiegare chi sei. Studiare e comprendere questi casi serve a non mostrificare le persone e a maturare un’idea sul lato giusto e sbagliato delle indagini. Per non subire la cronaca bisogna attraversarla.

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