“Non sono mai più riuscita a tornare a Tripoli” Daniela Dawan racconta il romanzo ambientato in Libia

by Michela Conoscitore

I passi del popolo ebraico sono sempre stati inscritti all’interno di peregrinazioni, sono passi affrettati di gente costretta frequentemente a spostarsi e a cambiare, non soltanto casa ma anche ricordi, usanze e il proprio modo di vivere. Quanti altri popoli al mondo possono raccontare una storia simile a quella degli ebrei, chi più di loro può davvero definirsi, malgrado tutto, cittadino del mondo? Cacciati, nel corso dei secoli, da varie nazioni europee, rinchiusi in ghetti, deportati con la Seconda Guerra Mondiale nei campi di concentramento, hanno sempre vissuto la loro nazionalità come una colpa.

Quel che accadde in Libia nel 1967 riannodò i fili col loro destino, in altre epoche: gli ebrei italiani subirono un vero e proprio pogrom che, con la rivoluzione voluta da Mu`ammar Gheddafi, li allontanò dalla terra in cui erano nati per trasferirsi in Italia.

Sicuramente questa è tra le pagine di storia contemporanea meno conosciute, ed è il periodo storico raccontato dalla scrittrice Daniela Dawan nel suo romanzo Qual è la via del vento pubblicato dalla casa editrice E/O. La Dawan nasce come avvocato penalista, e nel 2017 è stata nominata Consigliere della Suprema Corte di Cassazione per ‘meriti insigni’. Conosce molto bene quella pagina di storia: con la propria famiglia ha dovuto lasciare Tripoli, facendo parte della comunità di ebrei italiani. Delle circostanze l’hanno portata a raccontare quei giorni nel suo secondo romanzo, dove la vita della protagonista Micol è segnata dalla vicenda della sorella perduta Leah, e dalla Storia che segna il suo destino e quello della sua famiglia.

Dottoressa Dawan, il suo è un libro molto importante, l’unico che getta luce sulla cacciata degli ebrei dalla Libia, nel 1967. Perché si sa così poco di quegli anni?

C’è sempre una sorta di timore nel ricordare eventi che hanno investito i rapporti tra l’Italia e il mondo arabo, soprattutto la Libia così vicina alle nostre coste e stretta da rapporti commerciali con l’Italia, come un po’ tutti i paesi nordafricani. Quella della cacciata degli ebrei italiani dalla Libia, nel 1967, credo fosse una storia di cui i protagonisti non volessero parlare perché molti degli ebrei libici, negli anni successivi, hanno temuto ritorsioni da parte di Gheddafi. Pensavano ci potessero essere in giro dei sicari del colonnello. Poi come accade con certi grandi traumi, si preferisce rimuoverli. Questo per quanto riguarda le vittime. Per la storiografia ufficiale, l’Italia come dicevo prima ha preferito glissare su questa vicenda per evitare problemi col mondo arabo. Sono comportamenti ricorrenti questi del nostro Paese, e probabilmente di tutte le nazioni che devono tenersi buoni i rapporti coi loro ‘vicini’.

Quindi ha deciso di esorcizzare questa vicenda scrivendo Qual è la via del vento?

Non c’è mai una ragione precisa e razionale per cui si scrive una storia, nel mio caso più che una ragione è stata un’emozione: quando ho iniziato a scrivere il romanzo, si stava svolgendo la guerra civile contro Gheddafi in Libia. Guardavo le immagini in televisione di un paese che non avevo più rivisto, da quando ero bambina. Per noi era vietato tornarci, ed è rimasto come un qualcosa di vagheggiato nel sogno, come dirà anche Micol nel romanzo, rimane una sorta di memoria a sé stante, un po’ staccata dalla realtà. Quelle immagini mi erano molto familiari. Ho seguito quegli eventi non solo per la cattura di Gheddafi, che ovviamente ha catalizzato l’attenzione del mondo, ma anche per vedere dei luoghi che mi erano appartenuti. Allora ho pensato che una piccola parte di me, vedendo quel che accadeva in Libia, i fotogrammi che riprendevano le fosse comuni dove gettavano i cadaveri, e la violenza che ne traspariva, era rimasto lì, qualcosa di biologicamente mio. Sembra una cosa strana, ma in realtà affonda le radici in un evento vissuto dalla mia famiglia. Quando ero bambina, mia madre rimase incinta. Poco dopo che la bimba nacque, per un difetto di calcolo della gravidanza, morì. Questa bimba è stata sepolta a Tripoli e ha sempre accompagnato la vita della mia famiglia, dal suo corredino mia madre non si è separata per trent’anni e ci ha seguito nei nostri spostamenti, da Tripoli a Roma, e poi da Roma a Milano. Quindi quando ho rivisto la Libia in televisione, in quel frangente, ho sentito che lì c’era mia sorella, ho percepito ancora un legame con quella terra. Parlando con una mia amica editor di queste riflessioni, e dopo aver fatto un sogno, ho preso la decisione di scrivere il romanzo. Anche per far vivere attraverso le mie parole, una sorella che non è mai esistita. Il potere della scrittura è questo, dar vita a qualcosa che non l’ha avuto.

Il suo romanzo tocca vari registri stilistici: è corale e intimo allo stesso tempo, a seconda dei protagonisti che vanno in scena nel corso della vicenda, ed è anche ovviamente storico. Perché ha deciso di usare tutti questi registri per la narrazione?

L’utilizzo di questi registri nella narrazione è stato abbastanza spontaneo, anche se io tendo più verso un registro lirico e intimo. Però soprattutto nella prima parte volevo dare un ritmo incalzante e far vivere la Storia, gli eventi accaduti realmente. Il libro da questo punto di vista è diviso in due, la prima parte narrata in questo modo e con un aggancio effettivo con la realtà storica, nella seconda parte c’è più fantasia, è più onirica. Non sono mai più tornata a Tripoli ma faccio tornare il mio personaggio, immaginando delle situazioni. Anche se posso dirle che l’avvenimento della delegazione che va a contrattare con Gheddafi è vera, anche se ho immaginato il suo svolgersi e vede Micol tra i protagonisti. Comunque volevo che nella seconda parte Micol incontrasse sua sorella Leah, e quindi ho creato questa dimensione un po’ magica.

Leggendo il romanzo, ciò che colpisce maggiormente il lettore è l’indifferenza e l’insofferenza verso gli ebrei, durante quei giorni in Libia. L’antisemitismo è una costante, purtroppo, nella storia del suo popolo. In questi anni ha mai riflettuto sul perché gli ebrei nel corso dei secoli sono stati così osteggiati?

Credo che ogni ebreo si ponga questa domanda. È molto difficile dare una risposta univoca, secondo me esistono varie spiegazioni. Credo anche per una sorta di irriducibilità, gli ebrei non si omologano anche se sono uguali a tutti gli altri esseri umani di questo mondo. Sono, unicamente, i detentori di una tradizione millenaria a cui non vogliono far subire mutamenti. Sembrerebbe una cultura impermeabile, ma come le dicevo prima non è possibile incanalare tutto in una sola spiegazione, perché l’apporto degli ebrei laici nella cultura europea è stato grandissimo. Penso che l’antisemitismo nasca dalla necessità di avere un nemico, e come diceva Sartre è un problema dell’antisemita e non dell’ebreo. Forse il problema è stato anche quello di una certa chiusura di alcuni settori ebraici, e quando una cosa non la si conosce non la si accetta. La prima fonte di antisemitismo, comunque, è stata cristiana con l’accusa di deicidio, e spiegabile anche da un punto di vista psicanalitico, il figlio che uccide il padre. Sentirsi diverso è terribile soprattutto nella prospettiva di un bambino, e se viene fomentato dagli adulti difficile che poi i bambini sappiano agire diversamente. Quando ho frequentato le scuole medie a Roma, negli anni Settanta, posso dire che c’era altrettanta chiusura.

La diversità di cui è portatore il popolo ebraico, principalmente, è costituita dalla tradizione religiosa, anche se i rituali sono comuni a tutte le religioni. Nel libro racconta e ne descrive diverse di queste tradizioni. Qual è il suo rapporto con la tradizione ebraica?

Da laica, non so se sarò portatrice di questa tradizione, ma sono una che la riceve. Per rispetto della mia famiglia, osservo delle piccole cose, che non mi costano tanta fatica. Per esempio, la Pasqua comporta che non si mangino cibi lievitati, e quindi io non li mangio per una settimana. Per me, quella della Pasqua è una tradizione ebraica molto bella, perché celebra la ritrovata libertà degli ebrei guidati da Mosè, dopo la cattività in Egitto. Un concetto molto importante, contenuto nelle preghiere recitate nel periodo pasquale, è quando si dice a Dio che non c’era la necessità di infierire sul nemico, il suo popolo chiedeva di essere liberato senza arrivare a quelle conseguenze così estreme. Un altro stralcio fa valere molto la memoria, perché dice di ricordare sempre e al presente ai propri figli quel che fece il Signore per liberare gli ebrei dalla cattività in Egitto, non per vendicarsi ma per fare in modo che non succeda più. Per l’ebraismo la vita è sacra, e non c’è nulla che giustifichi questo sacrificio. Quando si compiono cose atroci, si va oltre l’umano. Temi che mi sono molto cari, la libertà e la sacralità della vita. Inoltre, per me la preghiera è un momento personale, non riesco a viverla durante una liturgia generale. Ho necessità del contatto diretto con quel qualcosa che ci sovrasta, che poi può anche essere l’energia dell’universo.

Il mare è parente dei sogni”, questa è una delle tante citazioni riferite al mare, contenute nel suo romanzo. Si percepisce molta nostalgia verso la Libia. Cosa ha significato lasciarla per lei e per Micol?

Per me ha significato lasciare i luoghi dell’infanzia, quel momento che ritengo dorato, bellissimo in cui c’era anche mio padre, che ho perso abbastanza presto. La Libia custodisce un periodo felice. A questo aggiungo la familiarità, che sento tuttora, con i posti e con le persone. Quasi invidio chi vive lì, inconsciamente, perché dentro di me quei luoghi sono mitizzati. Micol, invece, si tiene lontana dalla nostalgia per quella terra, la stessa nostalgia cha ha ucciso il padre. Quando è lì si fa prendere dalla sua malia, e si fa coinvolgere. Micol però ha la forza di venirne fuori e guardare al futuro, rispetto a me, non si volta e va avanti. Porta dentro di sé la sorella, e la conduce verso l’avvenire, diventando un tutt’uno con lei.

Micol torna in Libia, come parte di una delegazione, quando Gheddafi invita gli ebrei libici a tornare nel 2004. La donna ha anche un’altra missione: scoprire quanto più possibile su sua sorella Leah, una presenza costante che aleggia in tutta la storia. Perché per Micol è così importante recuperare la memoria di quella sorella perduta e mai conosciuta?

Per la Micol bambina, Leah è importante perché è un mistero, e come tutti i misteri suscita interesse. Comprende che è una cosa dolorosa, e nonostante questo lei ha bisogno della sorella perché è una bambina sola, la sceglie come sua amica immaginaria. Da adulta, questo bisogno di rincontrare la sorella è legato alla figura del padre: lei si fa carico della nostalgia del padre, di questa nostalgia di famiglia e di quello che si è perduto. Facendosene carico, in qualche modo, si libera. Riacquista anche completezza, una volta recuperata la memoria della sorella, percependosi invece prima dimezzata.

You may also like

Non è consentito copiare i contenuti di questa pagina.