Novecento, il capolavoro di Alessandro Baricco sospeso tra passato e futuro

by Claudio Botta

Un testo che, dalla sua prima rappresentazione teatrale al Festival di Asti – Eugenio Allegri attore, Gabriele Pacis regista – e dalla prima apparizione nelle librerie, rispettivamente nel luglio e nell’ottobre del 1994, non smette di emozionare e incantare. Al punto da spingere il suo autore a riappropriarsene, anni dopo il grande successo anche della maestosa trasposizione cinematografica di quasi tre ore del premio Oscar Giuseppe Tornatore. Novecento è Alessandro Baricco, nella forma – una scrittura così evocativa, classica e modernissima al tempo stesso, ricercata, raffinata eppure comprensibile, la negazione della banalità e della superficialità – e nel contenuto – l’amore per la musica, il jazz, per “le belle storie, che vale(va) la pena di raccontare”, le atmosfere, il tempo sospeso -, nella sua massima espressione.

E quando nel 2019 ha annunciato un suo tour teatrale, l’esercito di fans di ogni età incantati/e non solo dallo scrittore, dall’autore, dal saggista, dal letterato ma anche dal trascinante narratore, ha dato l’assalto ai botteghini online come fosse una popstar. In fondo nella presentazione dell’opera l’aveva definito “un testo che sta in bilico tra una vera messa in scena e un racconto da leggere a voce alta”. Ed era per lui inevitabile “dopo vent’anni di messe in scena, in ogni parte del mondo, con tutti gli stili, con artisti completamente diversi uno dall’altro” pensare che “tornare un po’ alla voce originaria di Novecento potesse essere una cosa interessante, per me e per il pubblico. Un modo di riascoltare quella musica col sound che avevo immaginato per lei”. Una produzione ovviamente essenziale, intensa, elegante, lui da solo sul palco, l’abbigliamento casual di sempre, i capelli più corti e più bianchi, la sua inconfondibile voce accompagnata dalle musiche originali di Nicola Tescari, per sottolineare i passaggi emotivi più intensi o segnare delle pause tra differenti parti. Ambienti rigorosamente indoor (“niente piazze o teatri all’aperto: il reading è un’animale fragile, che ha bisogno di raccoglimento”. In Puglia è stato possibile ammirarlo al teatro Petruzzelli), poche date ogni anno per non cadere nella ripetitività e nell’abitudine e “per farle tutte indimenticabili, almeno per me”, un calendario stravolto dalla malattia (una leucemia mielomonocitica cronica, che lo ha costretto a un trapianto di cellule staminali del sangue – donatrice la sorella Enrica – e a lunga pausa) fortunatamente debellata, e affrontata con discrezione sabauda e il coraggio di chi sa di avere ancora tanto da offrire e realizzare.

E per non farsi mancare nulla, nel marzo dello scorso anno Novecento nella sua declinazione The Source Code è stata anche la prima opera letteraria italiana a generare un NFT (acronimo di Non fungibile token, certificati che attestano l’autenticità, la proprietà e la provenienza univoche di un asset digitale iscritto nel sistema blockchain) in vendita sul mercato online OpenSea: un “codice sorgente” lo ha definito, un file audio digitale che partendo dalle origini (“la voglia di ritornare là, di risentire la mia voce che leggeva quelle parole come quando le scrivevo”) e da un racconto orale spoglio e potentissimo, senza alcun bisogno di appoggiarsi a qualsiasi sovrastruttura, attraverso le nuove tecnologie digitali si e ci proietta in un futuro per gran parte ancora inesplorato e in continuo movimento e cambiamento.

Un viaggio nel tempo e nello spazio restando sempre su una nave “straordinaria e in definitiva unica” che nemmeno Danny Boodmann T. D. Lemon Novecento avrebbe mai potuto immaginare, insieme al suo creatore. Il piroscafo Virginian che impegnato nelle tratte tra Europa e America aveva musicisti a bordo che suonavano tre, quattro volte al giorno “perché l’Oceano è grande, e fa paura”, “perché la gente non sentisse passare il tempo, e si dimenticasse dov’era, e chi era”, “per farli ballare, perché se balli non puoi morire, e ti senti Dio”. E di quei musicisti lui, il pianista, era il più grande. “Lui era qualcosa di diverso. Lui suonava…Non esisteva quella roba, prima che la suonasse lui”. Trovato da un marinaio in una scatola di cartone, a pochi giorni dalla nascita, lasciata “nella sala da ballo della prima classe. Sul pianoforte” e sempre rimasto su quella nave senza ufficialmente essere mai nato ed essere registrato in un ufficio anagrafico di una qualsiasi città. Autodidatta in modo bizzarro, e un talento innato nel suonare, e nel viaggiare attraverso gli occhi e le emozioni del suo pubblico, nell’immaginare e descrivere perfettamente città e luoghi che non aveva e non avrebbe mai visto. “Potevi pensare che era matto. Ma non era così semplice. Quando uno ti racconta con assoluta esattezza che odore c’è in Bertham Street, d’estate, quando ha appena smesso di piovere, non puoi pensare che è matto per la stupida ragione che in Bertham Street, lui, non c’è mai stato. Negli occhi di qualcuno, nelle parole di qualcuno, lui, quell’aria, l’aveva respirata davvero. A modo suo: ma davvero. Il mondo, magari, non l’aveva visto mai. Ma erano ventisette anni che il mondo passava su quella nave: ed erano ventisette anni che lui, su quella nave, lo spiava. E gli rubava l’anima”.

Esperto nel saper leggere “non i libri, quelli son buoni tutti”, ma “la gente. I segni che la gente si porta addosso: posti, rumori, odori, la loro terra, la loro storia…Tutta scritta, addosso”. E a quel punto scendere da “una fottuta scaletta” e andarlo a vedere sulla terraferma, con i suoi occhi, non era più necessario, non era più importante. Salvo poi un giorno ripensarci, e annunciare all’amico fidato la volontà di lasciare la nave, tre giorni dopo, per andare a vedere “il mare”, ma dalla terraferma. Ma arrivato il momento, e iniziata la discesa sulla scaletta, “con un piede sul secondo gradino e uno sul terzo”, sospeso “per un tempo eterno”, guardando davanti a sé, la decisione di risalire e di sparire all’interno della nave. Spiegata anni dopo, giustificata da “tutto quel mondo/quel mondo addosso che nemmeno sai dove finisce/e quanto ce n’è/non avete mai paura, voi, di finire in mille pezzi solo a pensarla, quell’enormità, solo a pensarla? A viverla”. Un uomo solo, di fronte all’immensità di sentimenti, emozioni, paesaggi, stati d’animo, persone, scelte. “La terra, quella è una nave troppo grande per me. E’ un viaggio troppo lungo. E’ una donna troppo bella. E’ un profumo troppo forte. E’ una musica che non so suonare”. La paura e la voglia. I desideri che strappano l’anima, “potevo viverli, ma non ci sono riuscito. Allora li ho incantati”. E non smetteranno mai di incantare le parole di Baricco, incantare e commuovere, come il finale, come l’intera storia, trasformata da Tornatore in un kolossal sublimato dalle musiche di Ennio Morricone, interpretazione straordinaria di Tim Roth, ma Novecento è nella sua dimensione scarna e spoglia che entra nell’anima per non uscirne più.

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