Odierai il prossimo tuo: a colloquio con il Cardinale Matteo Zuppi

by Felice Sblendorio

Quando Papa Francesco l’ha nominato Cardinale, molti hanno pensato che fosse nel destino delle cose. Perché l’Arcivescovo di Bologna, Sua Eminenza Matteo Maria Zuppi, era già il Cardinale della gente: amatissimo dalla sua comunità, capace di mescolare Vangelo e Costituzione, Giovanni XXIII e Guccini, è l’unico italiano creato Cardinale elettore nel Concistoro del 5 ottobre 2019. Spirito empatico e profondo, Zuppi è un Vescovo di strada: dalla Comunità di Sant’Egidio alle mediazioni internazionali passando per le commissioni di pace dell’Onu in Mozambico e in Burundi.

Quella del Vescovo di Bologna è una storia fatta di dialogo, comunità e ponti di pace. Da sempre convinto che sia l’altro a salvarci e che “il contrario della paura non è il coraggio, ma l’amore”, Zuppi ha pubblicato un libro importante: “Odierai il prossimo tuo. Riflessioni sulle paure del tempo presente(Piemme, 192 pagine, 16,50 euro), una testimonianza cattolica e umana sull’odio e sulle sue conseguenze. bonculture ha intervistato Sua Eminenza Cardinale Matteo Maria Zuppi.

Eminenza, “Odierai il prossimo tuo” è una radiografia sentimentale del tempo presente. L’odio, il frutto del peccato originale, sembra sia diventato una cifra identificativa: traslando e adattando Cartesio potremmo dire: “odio, quindi sono”. Che cosa dissolve nelle nostre vite questo sentimento?

Distrugge noi. L’odio distrugge chi lo riceve ma anche chi lo vive perché inquina costantemente, inibisce la scelta di quello che ci fa stare bene che è sempre incontrare, vivere e pensarsi in relazione all’altro. Nella vita di ognuno di noi l’odio è sempre qualcosa che ci rovina, che crede di risolvere i problemi, molto spesso illudendosi di nutrire un senso di giustizia. Quando ci facciamo muovere dall’odio perché pensiamo serva a vendicare qualcuno o tener in vita qualcosa, dipendiamo semplicemente dal passato e ci facciamo condizionare il futuro. L’odio, in poche parole, soffoca la vita.

Il rancore è una pianta infestante che insidia i suoi frutti migliori. Dall’altro canto è spesso una somma piena di solitudini, cinismo, fragilità. La “crisi del noi” aiuta l’evoluzione di questo sentimento serpeggiante?

Molto. L’odio è una dimensione che ricerca solamente qualche complice, qualche appartenenza solitaria che è molto diversa dal pensiero di comunità. Spesso è la difesa dell’Io rispetto alla relazione. Anzi, per certi versi l’odio è proprio un’interruzione della relazione. Chi odia, agendo un sentimento non limitato ma pervasivo, è sempre solo e colmo di cattivi sentimenti: è eroso, difensivo. Chi coltiva cattivi sentimenti si trasforma come quelle piante che hanno una radice profondissima e riescono a inaridire tutto il cuore.

Tutti noi abbiamo sempre più paura, però.

È qualcosa di istintivo. Ma è anche importante, perché ci aiuta a non vivere in maniera sconsiderata. La paura avverte un pericolo e quando la disinneschiamo rischiamo di vivere in maniera sbagliata, mentre quando siamo vittime delle paure tendiamo a non affrontare i problemi e ci chiudiamo in risposte sfocate. Viviamo poi in un mondo che entra nell’esistenza di tutti con forza, avendo seria difficoltà a comprenderlo, a collocarcisi, a sentire di poter contare in questo spazio enorme e invasivo con cui ci confrontiamo continuamente con la difficoltà di dominarlo e capirlo. Questo aumenta fortemente la paura e l’insicurezza. Inoltre, siamo più soli. Un nucleo familiare su tre è composto da una sola persona. L’Italia è un Paese con un’età media molto alta. Sentirsi più deboli e assediati da paure e pericoli è quasi comprensibile. Aggrava questo quadro l’individualismo che guarda solo al perimetro dell’Io e mai al Noi.

Ha chiamato in causa l’essere comunità e la fraternità dimenticata. Che cosa significa incarnare questi sentimenti?

È qualcosa di indispensabile: è il nostro ossigeno. Nella sapienza della Scrittura la prima preoccupazione di Dio è per l’uomo, che non sia mai solo. L’uomo non è fatto per vivere da solo. Vivere senza la dimensione della fraternità è impensabile. La fraternità è l’incontro nell’altro, in un fratello che condivide con me questo brevissimo tratto del cammino che è la vita. La comunità, il noi, una precisazione di questo aspetto, è una relazione corale per vivere la dimensione della fratellanza. Il cristiano è chiamato a una fratellanza universale. Il Vangelo su questo punto ci aiuta e ci chiede di vivere questo sentimento della vita con chiunque, perché chiunque è il nostro prossimo. Non è una categoria specifica, non è una comunità selettiva, non è un club o una casta, non è un luogo chiuso. La comunità del prossimo è il tentativo di pensare a una riconciliazione con tutto quello che c’è intorno a noi. Peccato che lo si attui sempre troppo poco.

Alla fine, è l’amore che ci salva?

Non c’è dubbio. A me colpiscono, soprattutto in questi giorni in cui molte persone terminano la loro vita in solitudine, le comunicazioni che spessissimo intercettiamo in chi consapevolmente sta per morire: si dice “ti voglio bene”, bisogna dire “ti voglio bene”. Sono le ultime cose che uno sente e vuol sentirsi dire, quasi un modo per riconciliarsi con la vita e, di conseguenza, con la morte. L’amore è ciò che resta di noi, ma è soprattutto ciò che lasciamo a chi ci sopravvive.

Fabrizio De Andrè cantava: “Quando si muore, si muore soli”. Che cosa ha provato vedendo le immagini dell’Esercito che porta via le bare da Bergamo?

Grandissima pietà e un senso di desolazione. Non poter accompagnare alla morte, non poter dire quel “ti voglio bene” come l’ultima parola che unisce le sponde di chi resta e di chi parte, mi fa mancare il respiro. Provo una grande sofferenza, e una grande compassione.

Questa sua testimonianza parla anche dei migranti, i bersagli perfetti dell’odio contemporaneo. Lei ha sempre vissuto l’integrazione, e l’incontro dell’altro, in quel miracolo di uomini e di fede che è la Comunità di Sant’Egidio. L’avversario del cristiano è sempre il male, mai l’uomo: chi odia i migranti non è cristiano?

Ci sono tantissimi aspetti del presente che tradiscono il cristianesimo. Il non giudicare è una delle tante cose che noi disattendiamo clamorosamente. Il prestito, poi: l’indicazione del Vangelo è molto chiara, ma noi siamo attentissimi a non dare. Amare il tuo nemico è un’altra grande indicazione che tradiamo continuamente, perché ci sentiamo in diritto di applicare quell’occhio per occhio che il Vangelo non consente. L’odio nei confronti dei migranti è un chiaro tradimento del Vangelo. Il Vangelo ci chiede di accogliere ogni migrante che rischia la vita in balia delle onde. Poi c’è la politica, la cosa pubblica che deve fare il suo corso, ma chi è cristiano o chi si professa tale non può tradire questo sacro insegnamento evangelico. Se siamo credenti, come dice nostro Signore, non si possono far morire in mare persone come noi. La gestione della politica, che è laica, non potrà mai impedirmi di vivere questa regola. Poi, per la mia formazione incentrata sul dialogo, io non potrò mai odiare un uomo solo perché è diverso, o perché è straniero.

È l’incontro che ci cambia?

L’incontro ci permette di vivere. Il Vangelo è molto legato alla vita. Bisogna ascoltarlo e metterlo in pratica: questa è una delle raccomandazioni più importanti del Signore. Il Vangelo non lo si capisce in maniera ideologica, moralistica, astratta. Il Vangelo lo si comprende nella pratica della vita. Se tu non incontri, non apri gli occhi e il cuore, è molto difficile comprendere la parola di Dio. Quando cominci a saper incontrare l’altro, la vita cambia radicalmente.

Oggi chi salva le persone in mare, chi tende la mano all’altro o chi aiuta gli ultimi è considerato un buonista. Quanto è pericolosa questa distorsione?

Molto. Se anche Gesù è buonista, allora abbiamo sbagliato tutto. Salvare vite umane in mare non è mai un gesto buonista. Un buonista è chi si ferma a buone azioni che servono solo per sé e mai a chi sta male, chi dona un amore non intelligente, chi si accontenta di comprendere sempre la fine e mai quello che c’è prima, chi crede che serva un buon sentimento senza farsi carico di nulla per fare pace con sé stesso. Il Samaritano, ad esempio, non è buonista, è buono: se l’attenzione vera all’altro viene considerata buonista, anche il Vangelo è buonista. È proprio buonista quel Vangelo che ci chiede di fermarci davanti a un uomo mezzo morto senza sapere chi è.

Nelle pagine di questo libro ripercorre molte delle ferite di Bologna, la comunità che lei guida spiritualmente. Dall’eccidio di Marzabotto alla Strage del 2 agosto del 1980: le testimonianze dell’odio che si fa dramma e morte sono tante. Quell’odio incandescente trova mai perdono?

Con difficoltà. Quando il male inquina e irretisce, è sempre uno tsunami che copre diverse generazioni. L’odio diventa pregiudizio, ostilità, vivere senza l’altro. Proprio per questo credo che sia indispensabile, per interrompere questa catena di male, la via del perdono: che non è mai alternativo alla giustizia, tutt’altro. Perdono e giustizia è un binomio che deve vivere contemporaneamente, sennò il perdono senza la giustizia rischia di diventare vendetta.

Lei non risparmia l’Istituzione che rappresenta, e parla dell’odio nella Chiesa e dei tanti attacchi al Pontefice. Perché fa paura una chiesa come quella che chiede Bergoglio, missionaria, senza difese e dalla parte giusta dell’umano essere?

Perché se non si vive autenticamente la passione pastorale, si pensa di svendere o sminuire la tradizione o la verità. Se si vive la passione pastorale in maniera totale si comprende bene che Papa Francesco è un vero tradizionalista.

Francesco condanna la mondanità che inquina la Chiesa.

La mondanità è un tratto distintivo preoccupante per tutti. La mondanità nella Chiesa è un tradimento. Il dialogo e l’incontro avvengono solo se c’è un senso autentico del Vangelo. Francesco insiste su questo: non cambio nulla della dottrina, ma mi impegno a far vivere una Chiesa missionaria, aperta, in marcia. Chi lo critica, forse, è interessato più allo stile della marcia che alla marcia stessa.

A ottobre è stato nominato Cardinale da Papa Francesco. La sua missione è sempre più quella di portare il Vangelo in tutte quelle crepe che la storia e il presente ci consegnano. Per chi è necessaria, oggi, la parola di Dio?

La parola di Dio è sempre necessaria, anche all’interno della Chiesa. La parola di Dio dovrebbe raggiungere i tanti uomini soli per fargli sentire la forza dell’amore. E dovrebbe raggiungere, oggi più che mai, i tanti uomini che presuntuosamente credono di poter pensare solo a sé stessi. Questa è una condanna: nessun uomo è un’isola, nessuno può bastarsi.

In questi giorni stiamo riflettendo molto sul tema della morte che, nel tempo, abbiamo cercato di esorcizzare, di allontanare. Perché ci fa così paura? Non riusciamo più a immaginare una vita e un amore più forte che la vinca?

Abbiamo nascosto la morte in tanti modi e, indubbiamente, non l’accompagniamo più. L’abbiamo espunta dalla nostra vita ordinaria, guardandola poco in faccia, facendo poco i conti con questo momento decisivo dell’esistenza di ogni essere umano. È un tentativo che facciamo ma è sempre parziale perché non possiamo mai definitivamente allontanare o chiudere la morte perché c’è, e arriva sempre. Tutti quanti, in tanti modi, ci confrontiamo sempre con la morte e con l’ombra della morte e, a mio parere, meno la guardiamo negli occhi e più ne siamo profondamente condizionati.

Papa Francesco ha dichiarato a Repubblica di aver riscoperto le piccole cose. In questo tempo sospeso, cosa ha riscoperto il Cardinale Zuppi?

Ho riscoperto la pazienza. La pazienza ha bisogno di tempo. L’impazienza ci fa bruciare tanto e non ci fa soffermare sulle piccole cose. Viviamo sempre in maniera impaziente, e oggi siamo condannati alla pazienza aspettando che questo virus vada via. Questa lezione mi ha aiutato a capire che le cose vere della vita hanno bisogno di tempo, del tempo giusto.

Nella sua Enciclica “Laudato si’”, il Pontefice ha scritto che “il meno è di più”. Questo tempo limiterà la nostra bulimia di cose, emozioni e consumi?

Sì. Quando l’uomo diventa un consumatore si rovina. Credo sia profonda la definizione di Papa Francesco: “il meno è il più”. È una bellissima indicazione perché ci libera dall’idea del consumo, dall’idea che io consumo quindi sono, e invece io sono non perché posseggo o consumo, ma perché sono vivo. È lì che si gioca la grande scommessa con un mondo che, molto spesso, ti riduce a consumatore dignitoso solo se hai e se puoi.

In questo libro lei scrive che bisognerebbe coltivare pensieri lunghi, qualcosa che guardi al futuro e non solamente alla manutenzione dell’attuale presente. Don Tonino Bello ricordava che la Chiesa “cambia la storia, non la subisce”. Da dove ripartire?

Questo virus ci ha già cambiati. Spero che maturino la consapevolezza, l’interiorità e la nostra profondità di spirito. Spero che questo cambiamento parta dall’interno di ciascuno di noi. Questa solitudine ci sta facendo comprendere meglio che siamo il frutto di un insieme. Dovremmo migliorare, cambiare e costruire le nostre relazioni in maniera più consapevole e piena.

Che cosa farà quando il virus libererà le nostre vite?

Vorrei incontrare tutti gli uomini e le donne che hanno perduto un loro caro nella solitudine: credo che serva ripartire da lì, da quell’affetto mancato che non hanno potuto ricevere.

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