Ogni vita anche isolata si infila nella vita degli altri. Gli insegnamenti del grande classico “Cambiare l’acqua ai fiori” di Valerie Perrin

by Giorgia Ruggiero

L’amore e la morte, un tè caldo per ricordare, gli amici di una vita, i figli e i segreti. Tutto quello che fa sprofondare un uomo, ma anche tutto quello che lo va a riprendere nell’abisso, tutto quello per cui si vive e tutto quello per cui si muore. Cambiare l’acqua ai fiori, di Valerie Perrin, è il romanzo della vita: si scompone e ricompone con l’ironia dell’alternarsi della tragedia alla commedia, tessendo un filo che – svincolandosi – racconta le cose di tutti, i disastri, i giorni di sole. La vita. 

Tutto ciò che uno è.

Violette Trenet, coniugata Toussaint, è la guardiana di un cimitero, cura gli ambienti, le tombe, i gatti del posto. Si ferma a leggere e a pulire le targhe funerarie, invita nella sua casa i familiari dei defunti perché parlino, perché ricordino meglio, perché non siano soli. Soli come lei, una donna che fa i conti con una vita alterata dalla ferocia di un destino che fa fatica a dir di sì alla felicità. 

Esistono donne che non assomigliano a nessun’altra, ed infatti la protagonista traina il lettore dentro il romanzo con la sua personalità buona e caritatevole, definita in maniera impeccabile da uno stile magnetico ed una scrittura sempre trascinante. 

Le persone che si passano accanto nel romanzo – sullo sfondo della Borgogna, delle sue canzoni d’amore e della sua pioggia parlante – sono mamme che hanno perso figli, uomini che arrivano da lontano con dei segreti sulla lingua, vedove, orfani: metabolizzando le loro perdite, diventano luce sul viale di ricordi che è la vita di Violette. Che si fa domande, si interroga di notte e di giorno, sempre nascosta nei suoi vestiti colorati, nell’odore buono della sua casa, dell’orto che si raccoglie intorno al luogo in cui più ha sofferto, ma dove il destino la supplica di tornare a vivere, di tornare a cambiare l’acqua ai fiori anche se non le importano più. A furia di vederli crescere, forse un giorno ci prenderà gusto ad amare il fatto che germoglino. Ad amare la vita che ha intorno. Ironico: vive in un cimitero. 

È questo luogo così inusuale a riempire di senso il suo dramma: vedendo gli altri soffrire, porgendo loro una mano nel buio, Violette ricongiunge punti della sua vita che credeva gliel’avrebbero soffocata per sempre. La morte e tutti i sentimenti che questa si porta dietro le sono così ordinari e familiari che piano diventano la svolta e – per paradosso figlio del grottesco – i motivi della sua rinascita. O, per restare in tema, della sua resurrezione. 

“Ognuno ha la propria vita.”

“No, c’è pure la vita degli altri.”

Il grande insegnamento di tutta la folla di sentimenti che si accalca in questo libro è proprio la preziosa consapevolezza che ogni vita, anche quando la pensiamo isolata, si infila – per contraddizione e per necessità –  in un’altra, e che da ognuna s’impara qualcosa. Cose devastanti, cose che ci salvano dalla morte (vera o temporanea), cose da niente e cose che invece, alla fine, ricamano il senso che diamo alla vita stessa.

Il senso di questa umanità sofferta, Violette lo capisce solo quando si apre al mondo, quando impacchetta il dolore che sente e lo mette da parte, innamorandosi ancora, anche nel buio – e quando si ama sennò? – compiendo i necessari passi verso se stessa, ricalcando le impronte di chi la sta accompagnando nella sua “resurrezione”: i suoi colleghi becchini, i suoi dodici gatti, l’uomo misterioso che la ama, il dolore sfiancante della figlia che ha perso. Tutto fa brodo: tutto serve alla macchinosa e inderogabile urgenza di vivere ancora. Nonostante tutto. Lasciando indietro ogni cosa, ma non dimenticandone mai nessuna:

“Perché non si rifà una vita?”

“Perché una vita non si rifà.”

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