Olocausto, Alexander illumina il trauma culturale

by Felice Sblendorio
Shoah

Settantaquattro anni sono passati dal 27 gennaio del 1945, oggi data della Giornata della Memoria, ieri giorno di liberazione di Auschwitz, il luogo fisico dove l’orrore della Shoah si è fatto materia reale del quotidiano. Settantaquattro anni in cui il tema dell’Olocausto è stato sviscerato in ogni dove, in qualsiasi forma, in ogni parola pronta a comprendere l’indescrivibile “brulicante cuore del male”.

Ancora oggi, però, quando tutto è stato detto, resiste potente la domanda sul perché ricordare l’Olocausto in modo predominante rispetto agli altri traumi che il Novecento ha dispiegato nei suoi anni.

Il trauma culturale

Se le risposte morali, politiche e civili non sono riuscite a colmare il buco del dubbio di pochi scettici sull’atto naturale di ricordare e non dimenticare l’orrore più estremo dell’umanità contemporanea, un saggio potrebbe aiutarci a scandagliare questo dilemma e spiegarci perché questo dramma è diventato con il tempo il nostro trauma culturale.

La risposta è in un libro illuminante, pubblicato anni fa da Il Mulino, a firma di Jeffrey Alexander, uno dei più prolifici e innovativi teorici sociali contemporanei, noto in Italia come alfiere del neo funzionalismo e come ideologo della società civile.

Nel suo testo “La costruzione del male. Dall’Olocausto all’11 settembre”, l’autore statunitense analizza sotto la lente della sociologia culturale il cambiamento radicale che la narrazione dell’Olocausto ha dovuto subire: da crimine di guerra a trauma culturale.


Jeffrey Alexander

La forza traumatica della Shoah è scandagliata in questo saggio grazie alla definizione alexanderiana del trauma: non male e efferatezza in sé (il dolore non basta a fare di un evento un trauma collettivo ci ricorda il sociologo) ma eventi simbolicamente costruiti, processi di costruzione sociale mediata, momenti che irrompono nella realtà solo se i significati precostituiti dalla collettività vengono improvvisamente destabilizzati.

La società da denazificare

Così, in un lungo excursus sulla storia traumatica dell’Olocausto, Alexander tratteggia il passaggio da crimine a trauma. Crimine di guerra subito dopo il ’45: la voglia di rimuovere, la narrazione progressista per lasciarsi tutto alle spalle, il racconto predominante della cronaca di liberazione da parte dei soldati americani. Quasi non c’era posto per gli ebrei e per il loro dramma. Un dramma non universalizzato, spersonificato, legato alla guerra, ad un regime oppressivo e relegato a condizione concatenante di eventi più identificativi: il nazismo battuto e vinto, la società europea da denazificare e ricostruire.

Ma è proprio su questa precarietà narrativa, dopo aver abbandonato una narrazione che tendeva al progresso e alla rimozione, che l’Olocausto venne ricodificato diventando evento senza più tipizzazioni, senza più esempi o precedenti storici.

Il genocidio degli ebrei venne analizzato come “il male sacro” (per dirla con Durkheim), un male di un’enormità e orrore tale da doverlo tenere radicalmente distinto dal mondo e da tutti gli altri eventi traumatici.

Un male sacro, che si opponeva alla narrazione progressista perché quel massacro rappresentava la fine e non un nuovo inizio dell’umanità. Un trauma di morte, più che di rinascita. Così è avanzata con prepotenza una narrazione tragica, il quadro che ci ha fatto conoscere l’Olocausto e la Shoah come archetipo, evento fuori dal tempo e dalla storia.

“Se Auschwitz è diventata la metonimia del male assoluto, la memoria della Shoah è diventata, bene o male, il modello della costruzione della memoria, il paradigma in cui quasi ovunque si fa riferimento per analizzare il passato o per tentare di installare nel cuore stesso di un evento storico che si svolge sotto i nostri occhi”. 

Annette Wieviorka, “L’era del testimone”

Ed è proprio questa, a distanza di settantaquattro anni, la cornice interpretativa che ci fa comprendere la disumanità aberrante di quel periodo e ci fa capire il perché di tanta attenzione sulla Shoah.

Una cornice che ha slegato l’evento dal conflitto, aiutandoci a ridisegnare le vittime e i carnefici, le colpe morali e non solo legali (gli atti contro l’umanità hanno bisogno della purificazione), il significato dell’antisemitismo trasformato in male e azione.

Una metafora-ponte

E se c’è un messaggio fra i tantissimi di potenza chirurgica che ci dona Alexander sul perché ricordare con forza proprio la Shoah, quello è l’eterno ritorno. L’Olocausto come oggetto “fuori dal tempo” ha fornito elementi indispensabili per identificarci, per comprendere che può succedere ancora. Per capire che le pesti si spengono ma le infezioni possono serpeggiare sottoterra come scrisse Primo Levi.

Un trauma che è servito come metafora-ponte per guardare al dolore e per rinsaldare i “benefici sociali della pietà”. Ha ricostruito la morale del mondo post-moderno occidentale alle prese con la ridefinizione del valore del male: rigonfio, intrinseco, assimilato dentro di noi, capace di ingannare anche i più sofisticati sviluppi del progresso umano.

by Felice Sblendorio

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