«Papyrus narra la storia della prima autrice di reportages dell’antichità». A colloquio con Monica Bedana traduttrice di Irene Vallejo

by Agnese Lieggi

I dispositivi, in questo momento storico, dominano e controllano le nostre vite, gli schermi luccicanti attraversano le menti verdi dei bambini, dei giovanissimi e di noi adulti che viviamo continuamente distratti da notifiche e subissati da messaggi pubblicitari che alterano la nostra concentrazione fino a farci percepire la realtà come altro da noi, miopi e superficiali nelle relazioni.

In questo scenario soffocante, cosa rappresenta ancora il libro? Una vera e propria forma di resistenza, il libro sopravvive con la sua fierezza, il lettore lo custodisce e lo vive come una forma ricchezza, attraverso il quale si ferma, si concentra e riflette. Gode di quel compromesso invisibile fra scrittore e lettore, assoggettato alla sua necessaria seduzione narrativa.

PAPYRUS. L’infinito in un giunco (edito da Bompiani, traduzione italiana a cura di Monica Bedana) della scrittrice spagnola Irene Vallejo, è un libro salvifico. È un saggio straordinario, incentrato sulla storia del libro sin dalla sua nascita nel mondo antico. Ripercorre le avventurose vicende che furono necessarie per custodirlo e diffonderlo, le diverse minacce che il libro ha subito fino ai nostri giorni, per esempio il tragico evento dell’incendio della biblioteca di Sarajevo. Nonostante il libro sia una delle nostre migliori invenzioni. La bellezza di PAPYRUS sta proprio in questo duplice ruolo, da un lato il lettore è attratto dall’aspetto più storico e didascalico, ma dall’altro, lo stesso, viene ammaliato dalla presenza autobiografica della scrittrice e dalle storie che si avvicendano e che lo tengono ostaggio della lettura. Si può percepire quella linea di confine che vive un libro “classico” nella nostra contemporaneità, proveniente da testi stampati sulla “delicatezza di foglie di papiro”. È altresì interessante il tessuto femminile che supporta la narrazione, Cleopatra viene ritratta, come una donna che conquista con la parola. Altrettanto interessante è la figura femminile della moglie del mercante salpato dall’isola di Cos, indotta alla tentazione di tradire suo marito lontano, da Gilide, la donna che fu la sua balia, che riporta un’idea della città di Alessandria, come città di libri e godimento.

Rivolgiamo qualche domanda a Monica Bedana, traduttrice, interprete e mediatore culturale ai Corsi Internazionali dell’Università di Salamanca e Direttrice Scuola di lingua spagnola dell’Università di Salamanca a Torino, che ha curato la traduzione in lingua italiana di PAPYRUS. L’infinito in un giunco di Irene Vallejo, che ha reso possibile la fruizione e diffusione del libro anche al pubblico italiano.

Monica, grazie anticipatamente per la sua disponibilità. Secondo lei, come mai, nonostante la sua natura saggistica, PAPYRUS. L’infinito in un giunco, ha avuto un successo da best seller in tutta Spagna e nel resto d’Europa?

Papyrus è un saggio peculiare, e non a caso Bompiani l’ha inserito nella collana Overlook –che tradurrei come “lo sguardo di un uccello migratorio in volo”, o di un drone, se vogliamo essere meno umanisti e più tecnici-, e non nella saggistica straniera. A mio avviso, il successo internazionale del libro risiede nell’originalità della sperimentazione di scrittura, insolita per la Spagna ma soprattutto per l’Italia: Papyrus è sì un saggio nel senso classico del termine, inteso cioè come scritto di carattere specifico –il libro nel mondo antico-, con un’analisi critica di una serie di avvenimenti e fenomeni di cui l’autore fornisce con rigore le fonti consultate, ed è anche –come ogni saggio- un’interpretazione personale dei dati su cui l’autore ha lavorato. La novità, l’unicità di Papyrus è rappresentata dallo stile con cui Irene Vallejo sceglie di esporre il risultato delle proprie ricerche: lo fa mettendole di continuo in relazione con il presente, con esperienze personali che spesso sono patrimonio di tutti noi e che ci risultano familiari; ci suscita, nel suo narrare, emozioni che ci connettono in modo quasi epidermico a un passato ritenuto inaccessibile ai più, territorio quasi esclusivo delle élites culturali. Il modo di raccontare di Irene Vallejo ha il potere di far parlare al mondo classico, a qualsiasi libro, la lingua odierna; di dimostrare che la scrittura e la lettura sono una tecnologia millenaria che contiene tutto il nostro essere, e questa è la meraviglia di cui centinaia di migliaia di lettori si sono resi consapevoli. È un libro tremendamente democratico, senza perdere nemmeno un atomo del proprio rigore scientifico.

Che ruolo svolge la traduzione all’interno di PAPYRUS. L’infinito in un giunco?

Papyrus è un grande omaggio alla traduzione come arte che s’incarna nel servire una società per ampliarne i confini culturali, abbattere le barriere, promuovere l’integrazione di civiltà come fonte di ricchezza spirituale e progresso. Dove racconta, per esempio, come nacque la Septuaginta, la prima traduzione in greco della Bibbia, parla di questo spirito di servizio; ricorda anche che ogni nostro pensiero, in realtà, è una traduzione, così come lo è la lettura: ognuno di noi è in qualche modo traduttore. Traduzione e lettura sono anche un atto di raccoglimento che ci obbliga a guardarci dentro, e che quindi può farci sentire scomodi; Vallejo ricorda infatti come la lettura silenziosa, un gesto che crediamo sia sempre esistito, sia una pratica relativamente recente, in realtà: gli antichi romani incaricavano della lettura a voce alta gli schiavi, per esempio, proprio perché temevano che lo “spirito del testo” si impadronisse di loro. Durante la pandemia, non potendo più trovare sollievo alle nostre inquietudini nella materialità del mondo esterno, siamo diventati più “traduttori di noi stessi” rifugiandoci nella lettura. In questo senso, Papyrus è anche un libro visionario, perché è stato scritto ben prima della pandemia, e ci suggerisce quali siano i fondamentali dell’essere umano, da recuperare con urgenza in questa nuova normalità.

La traduzione rappresenta ancora uno dei principali strumenti di diffusione e conservazione del libro?

Senz’altro sì ma, personalmente, mi sento una specie in via di estinzione, e non certo per il raffinarsi delle tecnologie o dell’intelligenza artificiale, nelle quali vedo, invece, utili strumenti a mia disposizione. Mi sento in via d’estinzione perché nella scuola e nelle università sta scomparendo l’humanitas e, con essa, l’idea di cura della parola, il valore che il mio mestiere –artigianale e, al tempo stesso, perfettamente in sintonia con la scienza e le tecnologie, voglio ribadirlo con forza – rappresenta nella società. L’apprendimento profondo che l’humanitas incarna –curare le parole, in qualsiasi campo del sapere, richiede tempo, studio e riflessione: anche questa è strategia millenaria, non un’invenzione educativa del mondo anglofono- viene sostituito dalle competenze, rivolte a produrre, nel più breve tempo possibile, risultati monetari, beni di consumo, alla portata di un’esigua e privilegiata porzione di abitanti del mondo: una vertigine che non solo non conserva il libro e il pensiero che esso contiene, ma che sta accelerando la fine dell’intero pianeta.

Qual è stato il ruolo della donna nella storia del libro?

Papyrus dimostra, riportando alla luce il lavoro letterario, culturale e persino giornalistico –racconta la storia della prima autrice di reportages dell’antichità, per esempio-, che le donne non hanno svolto un ruolo marginale nella storia del libro, e che se se ne parla poco, se le si conosce poco, è perché le loro figure non sono state recuperate e valorizzate come dovrebbero, nell’epoca moderna e contemporanea, e che quindi è una falla culturale della nostra società ancora patriarcale. Riscattarle dall’oblio contribuirebbe a spingere l’idea di parità, oggi. Non dimentichiamo, e Irene Vallejo lo scrive, che il primo nome che la storia della letteratura scritta conserva, 1500 anni prima di Omero, è di donna, di autrice: Enheduanna. Eppure le antologie scolastiche non lo riportano, così come dedicano poco spazio alle autrici in generale.

Che rapporto si è creato con la scrittrice Irene Vallejo, durante il suo lavoro di traduzione del libro?

Questa è una domanda molto intima e quindi, se mi permette, risponderò con un solo aggettivo: straordinario, proprio come il libro che Irene Vallejo ha scritto.

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