Post Pubblico di Gloria Bovio. «Siamo diventati pubblici effimeri e instabili, parti diverse di un grande postpubblico»

by redazione

Post Pubblico” è il primo volume della collana Sguardi Pubblici, edita da Mimesis Edizioni; una collana che raccoglie ricerche e riflessioni sul pubblico della cultura, delle arti classiche e di quelle contemporanee. Sguardi sono quelli dello spettatore che si confronta con l’opera e di chi studia il pubblico e i suoi consumi culturali in riferimento agli aspetti economici, politici e sociali della nostra contemporaneità. Il volume e la collana, curati da Gloria Bovio, si interessa – soprattutto dopo la tempesta scaturita dal Covid19 – di cosa sia (e di chi sia) il pubblico della cultura: manipolatore o manipolato? Mediale o mediato? Attivo o interattivo? Pubblico o postpubblico? Ad indagare queste domande, con una serie di dialoghi e conversazioni approfondite, svariati pensatori del mondo culturale e accademico come Carlo Bordoni, Derrick de Kerckhove, Nicola Emery, Alessandro Scarsella, Daniele Francesconi, Alessandro Bollo, Stefano Laffi, Francesca Serrazanetti e Pier Luigi Sacco.

bonculture pubblica l’introduzione del volume a firma di Gloria Bovio, architetta, socia-fondatrice e amministratrice di Dialoghi d’arte, think tank sul pubblico della cultura e sui consumi culturali e direttrice dello spazio culturale dell’ex Ospedale di San Paolo di Savona dove cura Cultura Capitale, un progetto di cittadinanza culturale.

Dal marzo 2020, quando l’Organizzazione mondiale della sanità ha dichiarato il Covid-19 pandemia, sembra che la realtà cui eravamo abituati sia cambiata per sempre, che nulla sarà come prima e che dovremo reinventarci tutto, anche nuovi modi di fare esperienza culturale. Ancora non sappiamo se sarà davvero così o se semplicemente ci limiteremo a riassorbire gli squilibri che si sono creati, in entrambi i casi parrebbe superfluo oggi parlare dello spettatore oltre la modernità. Un po’ come se quella del pubblico della cultura fosse una questione marginale, se già sapessimo tutto del percorso compiuto fino a oggi e l’unica cosa da fare fosse restare in attesa di tracciare nuovi comportamenti dopo che tutto sarà rientrato in una nuova (o vecchia) normalità. Invece il nostro modo di partecipare alla cultura e come ci siamo arrivati sono temi urgenti e perlopiù inesplorati, da cui dipendono le nostre attuali e prossime reazioni.

Le pagine del volume Postpubblico. Lo spettatore culturale oltre la modernità lo dicono chiaramente riportando una serie di conversazioni pubbliche, che hanno messo a confronto due mondi strettamente correlati tra loro: quello che studia il pubblico attraverso l’approccio ampio e teorico della sociologia, filosofia ed economia (Carlo Bordoni, Derrick de Kerckhove, Alessandro Scarsella, Nicola Emery e Pier Luigi Sacco) e quello di quanti operano all’interno di istituzioni o agenzie culturali (Alessandro Bollo, Daniele Francesconi, Stefano Laffi e Francesca Serrazanetti), che per il loro ruolo hanno una conoscenza profonda di un particolare tipo di pubblico.

Il motivo per cui proprio oggi è necessario parlare di pubblico della cultura e ripercorrere il cammino che ha compiuto dalla fine della modernità, è che da quel momento, più o meno consapevolmente e con un volto molto diverso, tutti siamo diventati pubblico di qualcosa. Non siamo più stati il pubblico massificato della modernità, ma pubblici differenziati e plurali, composti da singolarità capaci di prendere posizioni e direzioni diverse. Spettatori che ricevono e trasmettono l’informazione, approfondiscono le proprie conoscenze in modo autonomo e con il passare del tempo fluiscono da un pubblico a un altro o appartengono simultaneamente a più pubblici. Siamo diventati pubblici effimeri e instabili, parti diverse di un grande postpubblico. È innegabile dunque che questo sia un tema che riguarda ognuno di noi, dal momento che nessuno può sottrarsi oggi dall’essere spettatore e la nostra identità sociale si definisce principalmente attraverso il consumo culturale. Per quanto i nostri comportamenti potranno nel breve o lungo periodo modificarsi, non solo non smetteremo di essere pubblico, ma continueremo ad affermare la nostra identità attraverso le nostre scelte e i nostri comportamenti, continueremo cioè a riconoscerci e a essere riconosciuti attraverso la cultura. Seguire il percorso che ci ha portato a essere oggi pubblico resta dunque una questione importante che ci aiuta a comprendere quale forma potrà prendere il pubblico di domani e di quali meccanismi sarà parte.

Un altro motivo si lega direttamente a quest’epoca pandemica. L’emergenza sanitaria ha colpito pesantemente il mondo della cultura: scuole, musei, teatri e centri culturali sono stati chiusi per un tempo lunghissimo e quando sono stati riaperti lo hanno fatto a singhiozzo, tra mille incertezze e difficoltà. La clausura cui siamo stati sottoposti è stato uno straordinario esperimento collettivo che ha messo sotto pressione chiunque, sotto ogni profilo. Ci siamo accorti di quanto ascoltare musica, leggere, andare a teatro e al cinema, salvaguardasse il nostro equilibrio psicofisico. Nella privazione abbiamo avuto l’opportunità di toccare con mano lo stretto rapporto che esiste tra l’esperienza culturale e la salute mentale, cosa che in realtà la ricerca scientifica è da tempo capace di parametrare con rigorosa evidenza. Il perdurare della chiusura dei luoghi della cultura e in primis la didattica a distanza a cui sono state obbligate scuole e università ha radicato in ognuno di noi la consapevolezza di quanto la cultura sia relazione, quanto siamo esseri bisognosi di socialità e con quanta forza ci sia mancato l’essere pubblico che partecipa fisicamente all’esperienza culturale. Ecco perchéparlare oggi di pubblico e dei regimi entro i quali si consuma il rapporto con l’opera assume un significato profondo e per quanto la pandemia possa aver modificato i nostri comportamenti o per quanto diversa (o uguale) potrà essere la nostra prossima normalità, non solo non potremo smettere di essere pubblico che vive di relazioni sociali, ma continueremo a trovare spazio nel mondo attraverso il modo in cui saremo spettatori.

Pensiamo di conoscere il pubblico della cultura, ma non è così e dal momento che tutti siamo pubblico, occorre farlo. Soprattutto oggi che il nostro sistema sociale si trova a un punto di svolta. Non è un compito facile perchénon essendoci più una massa, abbiamo dinanzi un pubblico indefinibile, come dice lapidario Alessandro Bollo o senza volto come suggerisce Alessandro Scarsella. Molte altre sono le definizioni che emergono nei dialoghi di questo volume. Tra queste trovo che postpubblico sia particolarmente efficace a rappresentare l’insieme degli spettatori contemporanei, che siano figli adottivi o naturali dell’era digitale. Fruitori indisciplinati” che vanno ben oltre le aspettative che il loro ruolo imporrebbe, per affermarsi e non rimanere inermi in questa lunga fase di incertezza che il crollo dei miti e delle ideologie novecentesche ha lasciato dietro di sé. Carlo Bordoni definisce questo tempo interregno, passaggio obbligato verso una svolta capace di smuoverci e portarci oltre l’instabilità contemporanea. Nessuno poteva immaginare fino a poco prima che accadesse, che a cambiare le cose sarebbe stata una pandemia. E allora la domanda che pone Derrick de Kerckhove in queste pagine quanto tempo dobbiamo ancora soffrire in questo interregno?” potrebbe aver trovato una dolorosa risposta, perchése la pandemia ha chiuso le porte dell’interregno per aprire una nuova epoca, quello che si intravede non è un futuro migliore. Tuttavia altre sue parole risuonano più felicemente premonitorie: I duecento anni di guerra di religione in Europa sono stati una cosa ipercattiva, ma da cui siamo usciti con una personalità e un modo di essere completamente diverso da quello del Medioevo” e dunque persone migliori. Ancora non sappiamo se toccare il fondo sia l’inizio di una rinascita, ma a noi resta il compito di domandarci dove questo cambiamento porterà il pubblico che Nicola Emery definisce manipolato, oggi come nel secolo scorso, secondo un approccio critico che i grandi cambiamenti contemporanei della digitalizzazione non hanno attenuato. Consumatori dunque di prodotti culturali, ancor prima che spettatori, soggetti deboli che nonostante possano accedere più facilmente all’informazione, continuano (e continueranno?) a essere illusi nelle loro scelte dall’industria culturale. È quella stessa industria che nell’ambito dell’editoria Scarsella descrive sempre più attenta a titoli e autori collegati alla ricezione audiovisiva attraverso la tv e la rete, perchélì trova un terreno più ampio per alimentare i propri interessi economici, ma sempre più disinteressata a quel target di lettori che appartengono a una fascia culturale medio-alta. Eppure la cultura è anche fatica, non è sempre facile e non è solo un diritto. Poiché è chiaro che se oggi si vuole rendere tutto fruibile e tutto piacevole come in una sorta di talk show, certamente aumentiamo l’audience, ma non si fa un grande favore al pubblico, così come non lo fa la gamification e la mediazione tecnologica mirata all’effetto wow applicato all’opera, che magari assorbe e appaga chi la guarda, ma non lo fa pensare.

Ciononostante chiuderci in una roccaforte obsoleta e prendere una strada rigida che escluda il divertimento non può essere la soluzione. Lo spettatore contemporaneo sente il bisogno di essere flessibile e diversificare le proprie esperienze culturali, perché è proprio nella sua capacità di fruire di esperienze molto diverse tra loro che esprime la sua naturale pluralità. Questo significa che non possiamo ragionare solo in termini di mecenatismo colto, né solo in termini di divertimento e distrazione, ma dobbiamo tenere vivi entrambi, magari con prodotti ibridi. Ne sono un esempio i festival culturali, piazze che sono diventate set di creazione di legami, con una specifica funzione civile e di aggiornamento culturale, dove il pubblico cerca quello che non riesce più a trovare nelle istituzioni politiche e nelle scuole. Come sottolinea Daniele Francesconi, il successo del festival esprime un bisogno profondo di relazione e di conoscenza di un pubblico che resta però insoddisfatto, perché per sua natura l’evento non può assolvere a una mancanza strutturale del nostro sistema educativo e politico.

Per rimanere in tema di educazione come non pensare ai giovani spettatori che oggi pagano il prezzo più alto di questa emergenza? Pubblico in crescita, come lo definisce Stefano Laffi, per il quale la cultura non è un fine, ma un mezzo, uno strumento per posizionarsi nel mondo e costruire la propria identità. Da adulti sarà sempre la cultura a riaffermare quell’identità più o meno faticosamente costruita da ragazzi: strumento prima per affermarsi, poi per raggiungere obiettivi che migliorino la loro vita. Ciò è possibile se si costruisce un rapporto di fiducia che allontani il senso di inadeguatezza sempre presente a quell’età e alimenti l’attitudine a porsi delle domande, chiedendosi che cosa piace o non piace e perché. È quello su cui lavora Francesca Serrazanetti: aiutare il pubblico, giovane e non, a compiere una scelta consapevole. Le istituzioni in genere tracciano il pubblico per età, sesso, istruzione, professione e gusto, ma questo tipo di rilevazione che cade nella logica dei numeri ha mostrato i suoi limiti. Non importa sapere quante e quali persone vanno al museo o a teatro, se non sappiamo che tipo di esperienza fanno. Le persone che non partecipano all’esperienza culturale devono essere messe in condizione di capire cosa perdono o la loro non sarà una vera scelta. L’esperienza culturale, che sia assistere a una performance, entrare in una galleria o leggere un libro, apre una porta che ci fa capire meglio chi siamo e cosa possiamo fare della nostra vita. Sono principi che Pier Luigi Sacco esprime chiaramente nel suo dialogo e che riassume in un esempio molto semplice: il museo non può più soltanto funzionare come tempio della conoscenza, ma deve funzionare come luogo nel quale le persone letteralmente trovano la propria strada”.

Questo tipo di approccio presuppone una diversa conoscenza dei pubblici, saperne seguire le evoluzioni e affiancarli in modo intelligente nei loro percorsi. Tra questi riveste una particolare importanza il modello di produzione culturale fondato sulla partecipazione, in cui è lo spettatore stesso a creare nuovi prodotti culturali a partire da quelli esistenti, scelti sulla base della loro plasmabilità e di quanto questi consentono la partecipazione, l’interazione e la nascita di nuove relazioni. Da qui prendono forma nuove comunità di produzione culturale basate sulla collaborazione, dove produzione e consumo costituiscono un processo collettivo. Nell’ambito di questo modello partecipativo la questione rilevante non è la qualità artistica di ciò che viene prodotto, ma le connessioni tra le persone, i legami sociali che si creano e la riflessione individuale e collettiva che deriva dall’esperienza culturale.

In un momento di grandi difficoltà come quello che stiamo attraversando, in cui crescono le disuguaglianze e avanzano nuove povertà non solo materiali, creare nuove relazioni attraverso la cultura è un modo per prendersi cura di tutti noi e creare coesione sociale. Da qui occorre ripartire, dalla cultura e dal suo pubblico.

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