“Quando saremo grandi”: i Ragazzi di Vita di Antonella Caputo. L’amicizia e l’amore dei trentenni ribaltano ruoli di genere ed eliminano stereotipi

by Giammarco Di Biase

Sfoglio il libro di Antonella Caputo e mi accorgo (non con poco sdegno) che “Quando saremo grandi” parla anche di me: l’ho letto già due volte.

La copertina mi piacque fin dal subito, una foto ipovedente ancor prima di essere stata messa a fuoco, stampata come prima di un libro Edizioni Les Flaneurs; è un ragazzo in bici a intravedersi nell’inganno dell’immagine tesa nel somigliare a qualcosa. Dietro, nell’incertezza, palazzi, silhouette salentine.

Erano giorni incerti, il tempo soffriva le nostre pene autunnali: Antonella mi regalò il suo libro come se a lanciarlo fosse stato un dardo o una mano amica che scherza con i nostri amari destini, una mano “vicina al cuore selvaggio” dei trentenni (per parafrasare la mia amata Clarice Lispector).

Di cosa parla “Quando saremo grandi”? 

Parla di ragazzi scanzonati e allegri, segnati dalla vita, ribelli, viziati. La loro amicizia risale ai tempi del muretto su un lungomare del Salento. Alcuni sono rimasti amici negli anni, altri si sono persi di vista. Alla soglia dei trent’anni, la vita intreccia di nuovo i loro destini, tra ricerca del lavoro, noia, perdita delle speranze, confusione sentimentale, droga.

“Perché Laura ha abbandonato gli studi in Psicologia e sta cercando lavoro come babysitter? Cosa spinge Elisa a darsi alla fuga verso il Nord, dopo aver lasciato marito e figlia? E Riccardo vincerà le proprie resistenze, così da lanciarsi in una nuova esperienza?”

Capisco fin da subito, a fine lettura: Antonella Caputo mi ricorda il cinema di Xavier Dolan. Ricco di musica pop e di suggestive corse con la sua estetica a tratti affettata e sommossa, come è nello stile di grandi serie tv o di fiction cult ad episodi. Mi ricorda l’inganno della finzione, sono immagini a forma di interrogativo: un continuo chiedersi, adesso cosa succederà? Come succederà ai nostri amati protagonisti? Siamo davanti ad un romanzo da binge reading, anzi da binge watching.

Ma che sto scrivendo? Forse mi sbaglio. Anzi, no, non mi sbaglio!

 I personaggi di “Quando saremo grandi”, proprio come l’intelligente e minuziosa copertina del libro della casa editrice pugliese, sono in cerca di un regista, vite appese all’immagine. Un’immagine cieca che è, prima di ogni altra cosa, lo sguardo di noi trentenni, approssimativo, perso in domande continue. Domande che ci rimettono al mondo o che ci lasciano in vita.

Gli imperativi invece, sembra dirci l’autrice, ci riducono ad un mero traguardo. 

“Chi sono quei due che si librano a braccia aperte nell’azzurro ghiaccio di un cielo di gennaio come uccelli sospesi nel vuoto, non fossero imbrachettati da cinghie e cavi che li fanno apparire piuttosto gatti presi per la collottola e il sedere, non fossero così lungamente distesi a mimare le aquile? O i falchi, meglio.”

Antonella, com’è nata l’idea del libro?

Il mio libro vive di un ricordo lontano. Una bambina cerca disperatamente la mano di sua madre. Piange, addolorata. Questa bambina, che notai con sdegno quand’ero piccola anch’io, ha preso per mano me! Mi ha condotto in questa storia che si è scritta da sola. Volevo raccontare la generazione dei trentenni, la loro vita precaria ma anche più libera. Volevo parlare di legami: l’amicizia, l’amore, ribaltando i ruoli di genere, soprattutto eliminando stereotipi.

Hai raccontato una donna potente, in questo romanzo corale, diversa dagli stereotipi del genere “coming of age”. E’stato difficile?

Sentivo che la mia protagonista, ancor senza tutti i conti fatti, sulla soglia dell’incertezza, doveva abbandonare suo marito, e non viceversa. L’idea che una donna scappi dalla sua famiglia è congeniale alla rivoluzione che c’è stata nella narrativa postmoderna. La donna oggi più che mai è esposta ai suoi diritti e questa è una gioia ma anche una ferita enorme: non si fa mai in tempo a pareggiare con gli sbagli dell’uomo, non siamo mai totalmente riconosciute. La vita contemporanea è un continuo ribaltamento di sicurezze e in queste incertezze ci vedo un grande traguardo: l’essere liberi, l’essere liberi di ognuno di noi. Ma una donna se sbaglia, sbaglia con difficoltà, perché i suoi sbagli sono visti con occhio diverso rispetto agli sbagli dell’uomo.

Se dovessi descrivere il tuo libro con un aggettivo, come lo definiresti?

Lo definirei un romanzo tenero, perché anche se dialoga, per forza di cose, con tematiche interne alla nostra cultura, è  un romanzo “impolitico”. Volevo infondere grande speranza, anche negli sguardi incerti e nell’affanno quotidiano. E’ un libro che si apre sempre ad una serenità sommessa, raccontando la fiaba del nostro essere difettosi. Per questo devo ringraziare i miei editori, è difficile vivere nel Salento, significa faticare mille volte di più rispetto ad autori del Nord! Ma la mia storia è stata scelta fin da subito con affetto e attenzione. Ne sarò per sempre grata.

“Ma ora lasciamoli partire. Riccardo deve tornare a Bologna, ha la tesi da discutere, e c’è Eugenio che lo aspetta. E lasciamo Laura al suo studio, tanto a Stoccolma non ci andrà. Lasciamoli così, questi due, convinti che la loro sia soltanto amicizia.”

L’immagine è per sempre sospesa.

Noi tutti, i veri protagonisti di questo romanzo, equilibristi precari in tutto: la vita ci sembra felice sulle alture, pur continuando a sdegnarci contro il tempo.

Essere giovani ci mancherà per sempre.

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