“Quel che si vede da qui” di Mariana Leky: un libro sull’amore imprevisto che riduce in rovine le certezze

by Francesco Berlingieri

Mariana Leky
Quel che si vede da qui
(Keller)

L’okapi è un mammifero artiodattilo che sembra un cavallo, ha le zampe della zebra ed è imparentato con la giraffa. Lo ha scoperto un tale Johnston, nel 1901, nelle foreste del Congo. È, in termini cronologici, l’ultima specie scoperta dall’uomo in un pianeta, il nostro, che da tempo doveva sembrare non riservarci più grossi brividi.

Selma è una giovane nonna. È vedova da tempo. Suo figlio, medico, su suggerimento del suo analista, è perennemente in giro per il mondo. Kinshasa, l’Alaska. Sua nipote, Luise, è poco più che una bambina. Così come il suo amichetto, Martin, figlio di un cacciatore alcolizzato. Vivono in un piccolo paese del Westerwald, in Renania. Circondati da un bosco magico e familiare. L’ottico del paese, il signor Dietrich Hahnberg, è – da sempre – segretamente innamorato di Selma, ma si limita a scrivere centinaia di lettere d’amore che restano in valigia, senza mai superare il vigoroso status di incipit.
Poi Selma sogna un okapi. Al limitare del bosco. E Selma sa cosa significhi – per lei – sognarne uno. Significa che un membro della comunità morirà entro le ventiquattro ore.
E, in quel lasso di tempo, la vita si sospende. E può succedere davvero di tutto.
Anche che un cane scappi per andare dallo psicologo e Luise, nell’inseguirlo, s’imbatta in tre monaci buddisti. Uno dei quali, è chiaro, le ribalterà la vita.
“Quel che si vede da qui” di Mariana Leky, quarantanovenne di Colonia, è un libro fantasmagorico e colorato, tanto poco tedesco. Pubblicato nel 2017 ed eletto “Libro dell’anno” in Germania, tradotto in quattordici lingue, ha uno strano retrogusto latinoamericano che – per semplice distanza geografica – lascia piacevolmente sorpresi. O interdetti. O entrambe le cose.

C’è da dire che un libro così – così carico di personaggi sui generis, naif, conchiusi in esistenze piene di riti insoliti e liturgie rassicuranti, intendo – non è propriamente quello che leggo di solito. Ma non di sola epica o di soli noir si campa. E neanche solo di cattedrali medievali.
Così, ogni tanto, bisogna forzare la mano. E mettersi alla prova. Alla fine mi dico che mi è piaciuto, ma il rischio è stato grosso. Perché la dimensione del paese sospeso e della sospensione dalla realtà – quella esterna, oltre il sentiero, fatta di guerre, modernità, pandemie – a me, si tratti di Garcia Marquez o della Leky, mi sa sempre di Pieraccioni. E sono disposto ad accettarlo solo nel Canto di Natale o nel Grinch. Limite mio, lo so. Blasfemia.
Eppure, devo ammettere che – oltre alla bella scrittura e alla ricercatezza delle immagini tradotte – la storia si lascia seguire con crescente curiosità. E se non è Gangs of New York, se non c’è un duello o le Termopili alla fine del climax, la colpa non è del libro. Né della sua autrice.
“Quel che si vede da qui” è un libro sull’amore: quello imprevisto che riduce in rovine le certezze, quello coltivato come un segreto che non deve mai e poi mai vedere la luce, quello finito che strazia fino a un certo punto, quello per la bizzarria della vita in tutta la sua assurda pienezza. E, proprio per questo, è un bel libro. Che non leggerò più.

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