«Questa grande interruzione sta erodendo meccanismi di equilibrio interno sempre più fragili. C’è una pentola in ebollizione in ognuno di noi.» Un colloquio con Paolo Di Paolo

by Anna Maria Giannone

“Tutto comincia da un’interruzione”, le parole di Paul Valery, scelte come epigrafe, conducono fin da subito al cuore del percorso tracciato nell’ultimo libro da Paolo Di Paolo, penna fra le più sensibili e colte del momento, romanziere, scrittore, giornalista, non ancora quarantenne e già da tempo riferimento per la letteratura contemporanea italiana.

A metà strada fra saggio e narrativa, “Svegliarsi negli anni Venti. Il cambiamento, i sogni e le paure da un secolo all’altro”, come il titolo annuncia, attraversa gli anni ’20 dei due secoli. Un viaggio nel tempo e nello spazio per immergersi nella cesura che stiamo vivendo, da cui – siamo certi – il mondo non potrà uscirne uguale.  

Il Novecento a cui siamo aggrappati sta franando sotto i nostri piedi, il futuro appare più che mai opaco. In mezzo un presente fatto di storie private, di umanità diverse, immerse in un passaggio che non fatichiamo a definire epocale, ancor di più dopo marzo 2020. Un secolo fa questo stesso mondo si lasciava alle spalle una guerra globale e un’epidemia, sconfinando a suon di jazz nella nuova decade, carica di aspettative e di minacce.

Edito da Mondadori per Strade Blu “Svegliarsi negli anni Venti” non è un libro sulla pandemia mondiale, né un’indagine alla ricerca dei, tanto rassicuranti quanto apocalittici, “corsi e ricorsi storici” fra i due secoli.

È un libro denso, fatto di rimandi, sguardi diversi e, soprattutto, di domande, in cui Paolo Di Paolo si affida alle intuizioni di artisti e scrittori, alle loro “antenne sensibili”, per decifrare questo scarto fra epoche, il passaggio mentre si sta facendo. Una narrazione che mette assieme storia pubblica e storie private, e che procede per interrogativi, senza pretesa di trovare risposte definitive.

Abbiamo intervistato Paolo Di Paolo in occasione del suo intervento, nel corso del quinto appuntamento di Lectorinfabula, il Festival di cultura europea organizzato dalla Fondazione “Giuseppe Di Vagno”, dedicato proprio allo sguardo sul futuro: “Guardando il mondo dove va”.

Nei ringraziamenti a margine del suo libro racconta di come l’abbia spinta a scriverlo l’idea di aprirsi a un nuovo decennio con spirito fiducioso. A quel punto, è arrivata la pandemia. Come è cambiato questo libro alla luce di quanto stiamo vivendo?

L’idea del libro è nata alla fine dello scorso autunno, quando tutto avremmo immaginato fuorché di trovarci in questa situazione. Partivo dalla constatazione di un passaggio numerico: uscivamo dagli anni ’10 e giungevamo negli anni ’20. Un passaggio tutto sommato trascurabile. Non era tanto il nuovo decennio a colpirmi di per sé ma la constatazione di come questo decennio che stava iniziando segnasse davvero la fine del ‘900, come era stato nei precedenti anni ’20, decennio in cui, in virtù del grande dramma della guerra mondiale, l’800 finì davvero.

Alla fine dell’autunno scorso avevo la sensazione che questo nuovo decennio avrebbe marcato una distanza reale dal XX secolo. Poi è arrivata la pandemia. A quel punto avevo due strade: buttare tutto quello che avevo iniziato a elaborare o ripensarlo alla luce di quello che stava accadendo. Il legame con il passaggio traumatico della pandemia del 1918, che ha avuto un impatto psicologico fortissimo sull’umanità, ha creato il palinsesto seguito dal libro, per cui certe riflessioni venivano un po’ accelerate o addirittura incupite da quello che stava accadendo.

Ha definito questo suo percorso fra i due secoli un corridoio spazio-temporale, un tunnel da epoca a epoca. In che modo si è spostato nel tempo?

Quella del passaggio spazio – temporale è la metafora che avevo in testa muovendomi fra una storia accaduta negli anni ’20 del Novecento e una storia del presente. In questo pendolarismo mi sentivo di attraversare un corridoio spaziale – mi sono molto mosso in un atlante immaginario –  e temporale, perché mi sembrava di potermi accostare agli scrittori e agli artisti quasi pedinandoli nel loro tempo storico.

Non ho cercato tanto parallelismi forzati, non era una questione di corsi e ricorsi, quanto di rintracciare un’esperienza emotiva in un mondo dopo una grande interruzione, tanto più trovandoci davanti a un cambiamento così macroscopico. Lo era già senza la pandemia: la rivoluzione tecnologica è arrivata a un punto tale di maturazione da cambiare la nostra percezione del mondo, i ragazzi che oggi hanno l’età del secolo non hanno neanche un legame anagrafico con il Novecento, la loro prospettiva non risente di questa ombra in cui noi, sopra i vent’anni, siamo ancora immersi. Tutto questo rendeva già questo un momento di grande accelerazione, cosa che la pandemia ha probabilmente intensificato. Se rifaremo questa telefonata fra dieci anni tutto questo ci sembrerà lampante. Ho voluto raccontare, come nel titolo stesso svelo, il risveglio in un mondo nuovo, affascinante e terrorizzante allo stesso tempo. Volevo cercare all’indietro questa stessa sensazione di disorientamento.

Per raccontare di questo passaggio si è affidato spesso allo sguardo di artisti e scrittori. Come ha utilizzato queste figure nel libro?

Un po’ per mia inclinazione, una vocazione personale, mi veniva naturale convocare innanzitutto gli scrittori. Mi sembrava che, in quanto testimoni di un’epoca, attraverso le loro parole riuscissi a riconoscere con più facilità i segni lasciati. Gli scrittori sono come parafulmini del cambiamento.

Se penso a un libro come Mrs Dalloway, a cui dedico un pezzo di un capitolo, sento che là si sta raccontando non solo la giornata di una donna di mezza età del 1923 ma anche il disorientamento, l’ansia, le speranze di una umanità alla prova di quel decennio. Rileggendo il libro mi sono reso conto di non aver prestato attenzione in precedenza al fatto che Mrs Dalloway sia appena uscita da una malattia, probabilmente toccata dall’epidemia di spagnola. Questo, anche se solo in filigrana, la dice lunga su come in un romanzo si ritrovino, anche solo per lampi, delle verità che riguardano l’umanità di quel tempo, non solo di quel personaggio. Mi veniva naturale fare questo con Viginia Woolf, Thomas Mann, Kafka e tutta una serie di scrittori i cui testi, accostati al presente, creavano una sorta di scintilla.

Ci sono poi altri interlocutori speciali nel suo libro, mi riferisco a Siri, Alexa, Cortana…che ruolo hanno nella narrazione?

Avevo necessità di dare compattezza la libro, pieno di rimandi, di tracce. Mi è venuto in mente di partire dalle domande più semplici e più difficili allo stesso tempo, quelle che si pongono a un essere umano per capire chi è: cosa provi? cosa desideri? ti senti bene? Sono domande radicali nella loro semplicità. Ho pensato di porle alla micro intelligenza artificiale a cui rivolgiamo quotidianamente domande di natura pratica. Una dialettica con l’invisibile che, rimandando indietro la domanda, ci costringe a porla a noi stessi in un modo più intenso. Le risposte sono interessanti per due ragioni, innanzitutto perché se – ancora –faremo questa telefonata fra 10 anni, probabilmente le risposte di Siri, Alexa , Cortana saranno molto più interessanti di quelle di oggi perché più evoluto sarà il grado di maturità dell’intelligenza artificiale.

L’altro punto invece è legato alla vita di adesso. Mi aveva impressionato una notizia che dà il titolo al secondo capitolo, “Alexa sto male”: una donna malata di Covid, nella sua solitudine, ha lasciato ripetute richieste di aiuto all’assistente vocale del suo telefono. Questo fa molta impressione e molta rabbia. L’episodio mi ha portato a trattare un altro tema per me molto importante: la nostra solitudine, in un secolo che ci interroga sul valore delle relazioni umani.

Il libro si sposta nel tempo ma attraversa anche molti luoghi. Non a caso definisce Viaggio una parola chiave della contemporaneità. Che valore ha per lei?

Da un punto di vista personale, come credo a molti, il viaggio è la cosa che più mi manca. Quando uno spostamento diventa un viaggio vero è una delle esperienze conoscitive più radicali: polverizza le abitudini mentali e costringe a guardare il mondo con occhi diversi. Il cittadino globale, pur nella sua solitudine, nel viaggio ha la possibilità di relazione con la diversità. Viaggiare dà una vertigine, anche nella paura dell’ignoto.

Il fatto che ci siamo fermati tutti è veramente un passaggio epocale: un miliardo di persone in movimento sulla crosta del mondo si è improvvisamente arrestato.

Cambierà la nostra relazione con il viaggio dopo tutto questo?  Io credo di sì. Già prima della pandemia si stava portando all’attenzione mondiale il tema dell’opportunità dei viaggi low cost, spostamenti di grande facilità così dispendiosi da un punto di vista ambientale. Inevitabilmente non torneremo a quella disinvoltura di prima. Nel libro ho usato il viaggio come modalità di conoscenza di ciò che mi era estraneo. Il tour de force di spostamenti, di cui racconto in un capitolo, l’ho fatto per dimostrare a me stesso che i confini, nella mia formazione di cittadino del XXI secolo, sono labili e quasi invisibili: mentre quegli stessi confini venivano richiamati dalla politica in chiave sovranista, io in poche ore attraversavo cinque stati senza mai mostrare i documenti, muovendomi in un continente come fra quartieri della stessa città. Se pensiamo che in questo momento siamo divisi nella stessa nazione fra zone arancio, gialle, rosse: sono confini che fanno molto male.

A un certo punto racconta che, nel corso della quarantena di marzo, trovava irritante sia la posizione di chi si sforzava di vedere nella pandemia una sorta di palingenesi, la rivoluzione portatrice di un cambiamento «buono», sia la posizione di chi rifiutava di mettere in discussione modelli di pensiero e di società. È cambiata questa sua posizione?

Da un lato c’è chi nega il cambiamento, chi non vede l’ora di prendersi il mondo così come era prima. Questa cosa mi irrita molto.  Ho l’impressione che la maggior parte delle persone non veda l’ora di andarsi a riprendere famelicamente ciò che aveva prima, soprattutto quella dimensione edonistica della nostra vita precedente.

Dall’altra mi infastidisce la convinzione che il mondo cambierà in meglio. Io stesso ho avuto l’illusione iniziale che questo rallentamento potesse porre le basi per un cambiamento migliorativo, era una posizione ingenua.

Questa grande interruzione sta erodendo meccanismi di equilibrio interno che mi sembrando sempre più fragili. C’è una pentola in ebollizione in ognuno di noi. Le situazioni di rabbia, di povertà sociale si stanno inasprendo e questa tensione profonda non esploderà immediatamente, con la riconquista della libertà. Vivremo un contraccolpo emotivo a lungo termine. Non ci ritroveremo presto in un mondo in cui saremo pronti a stringerci la mano. Quando una parte dell’umanità si sente peggio, sente di aver rinunciato a troppo, pensa anche di dover riprendere in maniera rabbiosa quello che è suo. Siamo al limite di una polveriera in cui i desideri di ciascuno diventano una potenziale arma contro l’altro.

In questo percorso che ruolo ha il Futuro?

Il futuro è una dimensione affascinante e spaventosa. Quando parliamo dei nostri progetti per il futuro diamo per assunto che ci saremo. Lo spazio del futuro è sconosciuto, il più pericoloso. Il tempo che abbiamo davanti è una grande ricchezza e un grande rischio, ma la nostra capacità di progettarlo ci rende vivi.

Pare che la parola più ricorrente nel lessico di tutte le lingue sia “domani”. Anche in questo senso la grande interruzione ha cambiato un po’ le carte in tavola.

Sono mesi che non riusciamo a progettare niente, se non a cortissimo raggio. In realtà il nostro occidente stanco, a natalità zero, il futuro non se lo stava costruendo: un mondo che non cresce si autocondanna a una lenta agonia. Un paradosso importante. Il futuro era diventata una parola buona per la propaganda politica mentre nessuno si rendeva conto che la posta in gioco era il presente. Dall’altro c’è la crisi ambientale, minacciosa sul futuro dell’umanità. In mezzo c’è la pandemia. Nel libro la parola futuro è centrale ed è letta nella prospettiva di riesce a inventarlo nonostante tutto: pionieri, titani e folli che azzardano in un gesto la costruzione di un futuro.

Il libro procede per domande, sette interrogativi per sette capitoli. Come mai ha scelto questa strada?

Dentro ogni capitolo c’è una parola che genera domande. Di volta in volta attraverso temi come informazione, rivoluzione, politica. Sarebbe stato un po’ pretenzioso intitolare così ogni capitolo. Sapevo però che in ognuna di queste parole chiave avrei trovato storie, situazioni da raccontare.

Nel capitolo “Che cosa sai? Che cosa provi?”, ad esempio, ho voluto parlare della prevalenza del nostro sentire sul conoscere: la parola chiave che sottende alla domanda è Cultura. Sembra assurdo che nel XXI secolo ci siano esseri umani che neghino in maniera radicale e distruttiva l’esistenza di cose provate empiricamente. Anche l’uomo del ‘300 arrivava a conoscere il mondo attraverso fake news, approssimazioni alla verità, ma oggi anche chi non ha gli strumenti ha una possibilità di accesso alle fonti. Anche per questioni su cui non c’è spazio per il dubbio – che la terra non sia piatta per dirne una – c’è qualcuno che fa prevalere il sentimento alla verità. Nelle domande che danno il titolo ai capitoli si intravedono temi. Dentro le domande ho cercato delle storie. Non è un saggio teorico che ha una tesi da dimostrare, prova a porre interrogativi.

Il libro si chiude con una domanda infatti.

La cosa in cui credo maggiormente in questa fase storica è la capacità di porsi domande. Più ci poniamo domande, più manteniamo aperto un livello di curiosità e intelligenza che, invece, la presunzione della risposta talvolta obnubila. Non ho necessità di risposte, se non provvisorie. Che cosa accade? Che cosa siamo? Che cosa significa il tempo, la storia? Anche quelle domande assurde, che per imbarazzo non poniamo mai, è importante continuare a farsele, invece di pretendere di avere incontrovertibili risposte.

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