Roberto Mercadini e nonno Antonio

by Francesco Berlingieri

Ammetto: non conoscevo Roberto Mercadini. Sara, lei sì, lo conosceva. Quando mi ha proposto di leggere assieme L’ingegno e le tenebre, io ho fatto – posso dirlo con sufficiente certezza – la solita faccia che faccio quando qualcuno mi devia dai miei sacrosanti ed autoimposti obiettivi strategici. Chissà cosa stavo leggendo di così fondamentale in quel periodo, ma tant’è: accettai.

Il nome Mercadini non mi era del tutto estraneo. Del resto, sarei un libraio. E pur senza associare il suo cognome a quello di qualche cliente nello specifico, ricordavo comunque una Storia perfetta dell’errore e un libro sulla bomba atomica, precedente alla fama dell’Oppeheimer di Nolan. Fatto sta che ci siamo immersi nella lettura a voce alta. Io, a differenza di Sara, ho bisogno degli occhiali. Ma questo ha a che fare esclusivamente con gli acciacchi dell’età e non è di alcuna utilità nell’economia di questo scritto. “Tu come definiresti questo genere?”, mi ha chiesto lei, dopo un po’. Io non ho dato una risposta esaustiva al riguardo. Un po’ perché, come per la musica, per me tutto è “contaminazione”. E un po’ perché quello che Mercadini sviluppa ne L’ingegno e le tenebre è quel tipo di racconto che chi ti vuole bene ti fa in un dopocena invernale. Mio nonno faceva così: “Venite qua, che vi conto un conto”, diceva. E noi nipoti scattavamo e prendevamo posto attorno alla sua sedia impagliata. Mio nonno era dello stesso genere di Mercadini. O, alla domanda: “Che genere è questo?”, sarebbe arrivata l’ora di rispondere: “Il genere nonno Antonio”. Perché l’arte di narrare, di maneggiare le storie, è pratica della cura. Della trasmissione. Dell’accrescimento. Attraverso la mia voce, o quella di Sara, Mercadini mi ha raccontato – proprio come avrebbe fatto nonno – di Leonardo, dei Medici, di Michelangelo. Ma anche del Ghirlandaio, di Filippo Lippi. E di Pietro Torrigiano, che nel Giardino di San Marco assestò un preciso cazzotto sul setto nasale di quel bullo del Buonarroti, fu isolato da Cellini perché guai chi toccava l’amico suo, ed esiliato per tale sgarbo finì a scolpire terracotta per Enrico VIII d’Inghilterra, prima di finire malissimo in Spagna. O di Niccolò da Bari, che fino a una certa era il più grande di tutti e fu chiamato per realizzare l’arca funebre di San Domenico di Guzmàn a Bologna, e ci lavorò per tanto di quel tempo da mutare il suo nome – guadagnandoci, c’è da dirlo – in Niccolò dell’Arca. O del Da Vinci, bulimico di sapere e perennemente distratto da altro. Alla fine di un libro così, finisce che ti manca la voce narrante. Ti chiedi perché abbia smesso così, proprio sul più bello: in fondo, eravamo soltanto al sesto decennio dei Cinquecento, avrebbe potuto e dovuto continuare. Magari fino ai giorni nostri. Perché Roberto Mercadini è un divulgatore, un cantastorie: la sua lingua non è mai più attorcigliata del dovuto, non si autocompiace mai nella costruzione di una frase, ma – senza mai banalizzarsi o impoverirsi – arriva vividamente al sodo.

Così, dopo la fortunata prima esperienza, ci siamo ripetuti: La donna che rise di Dio conserva lo stesso stile, la stessa cadenzata voglia di raccontare, lo stesso principio per il quale prendere posto attorno alla sedia e stare a sentire: di Eva e dell’albero della Conoscenza, del Signore di Abramo che porta in canzone Abramo stesso sulla sua stessa discendenza, con Sarah che davvero non sa più se credergli; di Lot che ospita i due stranieri a Gomorra, la folla che vuole conoscerli – ora ci vuole – “biblicamente”, e i due che in realtà sono angeli sterminatori e trasformano Sodoma in uno scintillante barbecue.

Attraverso il suo stile, fatto di aneddoti fulminanti che però non si esauriscono nell’aneddotica fugace, ho apprezzato la capacità di chi sa trasferire al lettore il cuore di ciò che si apprende attraverso lo studio; attraverso il suo punto di vista, spesso poco ortodosso e illuminante, mi sono reso conto che – in effetti – io non conosco granché del Vecchio Testamento, tanto da domandarmi – come Mastandrea in quel film: “ma che conosco io?” Boh, non è importante.

Per il momento basti sapere che sono estremamente felice di aver conosciuto – sia lode a Sara! – Roberto Mercadini. E il fatto che ci sia ancora, in giro, gente capace di ammaliare con l’arte della parola, in qualche misura mi tranquillizza. Mi tranquillizza non poco.

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