Salvatore Romeo e “L’acciaio in fumo”. La storia dell’Ilva, scritta nell’antropologia tarantina

by Antonella Soccio

Dai cantieri Tosi all’Ilva. Fino alla nascita della consapevolezza ambientalista, quando ogni tarantino affacciandosi alla finestra ha cominciato ad interrogarsi su quei picchi di fumo.

Non è un diario, il libro “L’acciaio in fumo. L’Ilva di Taranto dal 1945 ad oggi” di Salvatore Romeo, pubblicato da Donzelli e presentato alla Ubik di Foggia in presenza dell’autore in compagnia dei due accademici dell’Unifg, il giuslavorista Marco Barbieri e l’antropologa Patrizia Resta.

Non è un diario, ma si sente la forte presenza, nelle pagine, delle persone con cui ha parlato Romeo, le tracce che gli sono servite per costruire l’oggi di Taranto. La città, come ha spiegato la professoressa, vive un momento di grande delusione dopo le immani e incaute promesse degli ultimi anni, tutti speravano in una industrializzazione meno drammatica, ma con AncelorMittal, la città è lontana non solo dalla riconversione ambientale che la fabbrica meritava e che i cittadini e le associazioni reclamavano, ma anche da quello sviluppo che Taranto aveva voluto negli Anni Settanta. Negli ultimi 15 anni si è assistito al proliferarsi di grandi contraddizioni sociali.

“Chi vive come me ancora nella città di Taranto sa che chi sta lavorando adesso in Ancelormittal non sono i vecchi operai, tanti cinquantenni sono stati allontanati”, ha spiegato Resta.

Il libro di Romeo è un testo saggio, con moltissimi numeri. Dedicato a suo padre Sebastiano e al compianto Alessandro Leogrande, che lo hanno aiutato a strapparsi da quelli che Romeo definisce “vagheggiamenti fumosi”, il libro racconta la crisi e il disastro di Taranto, inquadrando la vicenda con piglio storico, tentando di illustrare le scelte politiche che hanno pesato sul suo sviluppo, come davanti ad uno specchio.  

Pensata come fattore propulsivo per lo sviluppo del Paese, e del Mezzogiorno in particolare, l’acciaieria ha assunto da subito una posizione preminente nei confronti del contesto locale. Le trasformazioni innescate dal suo insediamento hanno sollecitato una dialettica intensa.

L’Ilva è più di un fattore antropologico per i tarantini.

“È un libro che rimette le cose a posto, spiega che Taranto non è solo la molle Tarentum latina, non è una città facile, diventa una provincia tardissimo, in epoca fascista. Taranto non è mica una città di mare, non è una città di pescatori. Taranto non è mica Manfredonia, non ha la flotta. La miticoltura è come l’orticoltura, che ne fa l’identità di un luogo, segnando la sua antropologia. Taranto ha avuto il Mar Piccolo diviso in orti, ogni pescatore andava a mettere la semenza delle cozze. Ho lavorato molto su Manfredonia. La pesca d’altura, uscire per tre giorni con un peschereccio in mare, portare il pescato al mercato ittico è molto diverso che attendere i frutti della semenza delle cozze. Coltivare e fare pesca sono due caratteristiche economiche. Taranto non ha un suo essere definito fino a quando non è cominciata la vicenda industriale. Prima non era storicamente determinata”, ha detto nell’introduzione al libro la professoressa Resta.  

Il professor Barbieri si è concentrato sul raddoppio dell’Ilva negli anni Settanta e sugli scontri sindacali e politici di quegli anni.

“La Taranto che si apprestava ad accogliere il siderurgico era una realtà che usciva da un decennio di deindustrializzazione, esito inevitabile (e tardivo) della trasformazione del “modello di sviluppo” dell’industria italiana – da supporto dell’apparato bellico a produzione di massa di beni di consumo. La vicenda dei Cantieri mostra il disperato tentativo di mantenere artificialmente in piedi una realtà la cui unica energia vitale rimasta era probabilmente l’orgoglio delle sue maestranze. Il passaggio di testimone dalla navalmeccanica alla siderurgia segna per Taranto l’ingresso, con dieci anni di ritardo, nel secondo dopoguerra, cioè nella nuova fase della modernizzazione dell’economia italiana”

Salvatore Romeo

Ebbene, nel corso della presentazione Romeo ha illustrato la genesi del suo libro e il senso profondo del suo lavoro, unico nel suo genere, grazie al recupero di documenti e di quelle testimonianze dimenticate, quando tutti desideravano l’insediamento dell’Ilva a Taranto.

L’autore segna questo legame nella storia napoleonica di Taranto, il Mar Piccolo era un porto importante, nella Torre era stato prigioniero il nonno di Dumas, Pierre-Ambroise-François Choderlos de Laclos autore de Le relazioni pericolose muore sull’Isola di San Pietro. L’Italia ha due grandi arsenali La Spezia e Taranto.  

“La prima industrializzazione della città ha esigenze belliche. Negli anni Cinquanta e Sessanta l’Italia non può più fare una politica di potenza, come era stato durante il Fascismo. Taranto ne risente negli anni Cinquanta e cade in una crisi drammatica. L’arsenale subisce un grandissimo crollo, sono migliaia le persone espulse, c’è una crisi di identità”, rileva Romeo.

Taranto diventa così nel Dopoguerra una città provvisoria, generando un grande assillo nelle classi dirigenti tarantine. Tutto questo è il fulcro del libro. La Cassa del Mezzogiorno coglie l’opportunità, in un momento storico in cui altre città di mare, con la spinta dei partiti e in particolare della Dc, vorrebbero ospitare un insediamento siderurgico. Tutti i partiti, dalla Dc alla Federazione giovanile comunista, che volantinava davanti agli uffici di collocamento vogliono l’Ilva. Anche Brindisi e Bari e alcune città della Calabria vogliono l’Ilva. Ma Taranto vince la battaglia per il suo porto- dappertutto nel mondo si stavano costruendo stabilimenti costieri- e la partecipazione statale decide di insediare l’azienda nella zona più vicina al porto, laddove erano state costruite delle case antimalsane contro i tuguri.

“La decisione fondamentale sulla compatibilità ha come priorità quella economica. Finsider realizza un quartiere urbanistico, organizza rassegne teatrali straordinarie”, osserva Romeo, ricordando i filmati dell’epoca con le escavatrici che rimuovono gli olivi, con la voce di Arnoldo Foà sui testi di Dino Buzzati, che parlano di  “forze prometeiche in un paesaggio sonnacchioso”. L’Ilva nella narrazione di quegli anni porta il progresso, è questo il discorso pubblico di Finsider.

“Le cose cambiano quando la collettività comincia ad avere i primi disagi. C’è una fame di lavoro, dei 15mila lavoratori impegnati per costruire lo stabilimento nel 1964 vengono assunti soltanto 5mila lavoratori. Col raddoppio si passa ad 1800 ettari. Negli anni Settanta entra in scena il movimento operaio che non è quello dell’arsenale e neppure quello degli assunti filtrati dalle clientele del notabilato locale. Entra in fabbrica una generazione che o ha fatto il 68 o ne ha subito le influenze”. Il tema dell’epoca non è l’ambiente, ma l’insicurezza sul posto di lavoro. Il quotidiano l’Unità in un grande reportage dà il numero dei morti.

La contestazione parte dall’anello debole della catena, le morti bianche. Si apre una nuova stagione che ci porterà all’Ilva di oggi.

Un libro da non perdere se si vogliono capire i tormenti e le disillusioni di quest’ultimo anno a Taranto.

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