Stefano Liberti. Quando un’oligarchia capitalista diventa produttrice del cibo unico

by Modesta Raimondi

Da dove arriva il cibo che mettiamo sulle nostre tavole? Che luogo di approvvigionamento e svago sono diventati i supermercati? Quanta attenzione si dà al costo degli alimenti e quanta, invece, all’impatto su ambiente e salute pubblica? Esiste un rapporto tra chi produce e chi acquista?

Di questo e molto altro ha parlato Stefano Liberti, nel suo libro “I Signori del cibo. Viaggio nell’industria alimentare che sta distruggendo il pianeta”. Un libro che il pubblico di Conversano, nel corso del Festival Lector in Fabula, ha recentemente avuto modo di apprezzare, direttamente dalla voce del suo autore, nell’incontro del 26 settembre scorso.

Bonculture lo ha intervistato.

Chi sono i Signori del cibo e cosa decidono per noi?

Sono quei pochi attori, con grandi capacità di spesa, che definiscono i meccanismi di produzione e commercializzazione del cibo, nell’intero sistema alimentare globale. Si tratta di aziende transnazionali, che si spostano da un paese all’altro, imponendo modi di produzione.

Essendo forti, riescono a lavorare con costi più bassi, anche perché i costi maggiori (ambientali e sociali), non sono pagati da loro, ma dalla comunità intera.

Questa oligarchia cosa determina nelle nostre vite?

Determina che non sappiamo più come e dove viene prodotto il cibo: compriamo alimenti senza identità che spesso costano poco, perché questo tipo di produzione abbatte molto i costi.

Il mio libro nasce dalla necessità di dare un’identità a ciò che mangiamo, e per scriverlo ho ricostruito filiere che non conoscevo.

Sono partito dal piatto, dal supermercato, cercando di ricostruire l’origine della merce. Mi sono trovato in viaggi assurdi, lunghissimi e inconsulti, incontrando le persone che controllano il sistema alimentare globale.

C’è una distanza enorme tra chi produce il cibo e chi lo consuma: una distanza fisica che diventa anche cognitiva. Per ricostruire la filiera del pomodoro mi sono trovato in Cina, al confine con la Mongolia, ad esempio. Non sappiamo cosa introduciamo nei nostri corpi e cosa ci dà energia.

È dunque preziosa la filiera corta? Funziona?

Per alcuni prodotti è una grande opportunità, ci consente di conoscere l’origine degli alimenti e di avere un impatto ambientale minore. Ed è soprattutto un modo per far fronte a questa distanza gigantesca tra produttore e consumatore.

Apprezzare la filiera corta, non significa nutrirsi solo di ciò che cresce nel proprio territorio: sarebbe una visione difficile, anacronistica e antistorica, perché il cibo ha sempre viaggiato, nei secoli e nei millenni. Gli stessi prodotti della nostra dieta mediterranea non nascono nel mediterraneo: il pomodoro viene dal centro-America, ad esempio. Il viaggio del cibo è parte della storia umana. Quello che oggi è diverso, è che questi viaggi sono assurdi e privi di senso. O meglio, rispondono solo al bisogno di produrre dove costa meno, senza preoccuparsi delle conseguenze.

Certo, è meglio consumare prodotti del nostro territorio, dopo di che va portato avanti il commercio alimentare con una regolamentazione seria, che riduca le distorsioni di cui io ho parlato.

Che conseguenze ha questo mercato sulla salute pubblica? È fantapolitica immaginare che esista chi danneggia la popolazione e chi la cura? E penso alle multinazionali del farmaco.

È vero che il mercato delle sementi è sempre più in mano a ditte farmaceutiche che si occupano anche di medicinali, penso alla Bayer e alla Baff.

Oggi c’è un filone di pensiero secondo cui ci stanno facendo ammalare per poi curarci, e forse qui c’è un po’ di fantapolitica. Ma quello che avviene davvero è che dovendo produrre tanto e a costi ribassati, si ricorre a tecniche, sementi e fertilizzanti chimici che non sono positivi per la salute umana e l’ambiente.

È fondamentale invertire questa tendenza: portare avanti una produzione alimentare attenta agli ecosistemi, così da nutrirsi meno e meglio.

I cibi globalizzati spesso sono a buon mercato e poco nutritivi. Se mangiassimo meno e meglio, a fine mese i conti sarebbero identici. Per farlo occorre educazione alimentare, conoscenza e sensibilità.

Pensiero unico e cibo unico, sembrano gli ingredienti di una società distopica. Se lo pensiamo, siamo di nuovo nella fantapolitica?

Faccio un esempio. Io ho ricostruito la filiera della carne di maiale che si produce tantissimo in Cina, oltre che in Italia e in Europa. In Cina ci sono la metà dei maiali del mondo: 700 milioni ogni anno.

Ci sono andato e ho visto mattatoi e allevamenti intensivi del tutto simili a quelli del nord America e dell’Europa. Ma la cosa che più mi ha stupito è che lì ho trovato i maiali Duroc, gli stessi che ci sono da noi. I cinesi hanno le nostre razze. Quando ho chiesto come mai, mi hanno risposto che li importano perché sono animali geneticamente adattati al regime di confinamento dei loro allevamenti. Sono quindi scrofe importate via aereo.

A fronte di ciò, le razze autoctone cinesi stanno scomparendo perché non si adattano a quel metodo di allevamento. Pertanto, nel mondo, stiamo mangiando tutti la stessa cosa: è abbastanza inquietante.

I prodotti vincenti sono quelli che rispondono a necessità commerciali: la banana Cavendish, ad esempio, si vende solo quella, mentre ne esistono centinaia di varietà.

La Cavendish ha una durata ed una facilità di trasporto tale da essere commercializzata in tutto il mondo, a scapito delle altre.

Ritiene che lo Stato stia abdicando al suo ruolo di vigilanza della salute pubblica e ambientale?

Si, lo penso. In altre epoche storiche, i poteri pubblici avevano il controllo della produzione e della commercializzazione del cibo. Era così fin dagli albori degli antichi imperi cinesi o romani.

Quello che è avvenuto negli ultimi 40 anni, è che pochi soggetti privati hanno acquisito il controllo, mentre lo Stato, tramite normative sul libero scambio orientate verso la globalizzazione neoliberista, ha abdicato al suo ruolo di garante della salute pubblica e ambientale.

Oggi il cibo viaggia molto più di prima, rispondendo a necessità di profitto di quei privati che hanno il solo scopo di moltiplicare i loro profitti. Un tempo c’era un controllo pubblico che aveva un obbiettivo diverso: garantire il bene comune.

Lo Stato deve riappropriarsi di quel potere, regolamentare, impedire le distorsioni di una commercializzazione alimentare che è decisamente sfuggita di mano.

Come ci possiamo difendere noi consumatori?

Con l’informazione. I dati che ci vengono forniti sulle etichette sono manchevoli e burocratici, parlano di ingredienti che il pubblico non conosce. Servono informazioni semplici, alla portata di tutti; indicazioni che riferiscano anche dell’impatto ambientale del cibo. È un tema centrale. Bisogna ripartire dalle nuove generazioni.

Ritiene che debba cambiare anche il marketing, ponendo l’accento meno sul sottocosto, e più su ecologia e salubrità?

Il marketing degli ultimi anni è stato tutto improntato sulla politica dei prezzi, una politica che sta danneggiando gli stessi supermercati, che così facendo svalorizzano il cibo.

Le industrie più attente e visionarie stanno modificando il messaggio, spostandosi su salute, ambiente e sostenibilità. Sarà questo il modello dei prossimi anni: la battaglia dei prezzi la manterranno solo i discount, mentre i supermercati tradizionali proporranno merce che parla di salubrità e sostenibilità ambientale.

La narrazione che si fa intorno al cibo andrebbe riconsiderata.

Si. L’attenzione al cibo è grande, dai libri alla presenza ossessiva degli chef in televisione. Occorre canalizzare questa attenzione (che in Italia già c’è) verso modelli positivi e virtuosi. Sarà questa la sfida dei prossimi anni: sfruttare l’attenzione dell’opinione pubblica, per costruire filiere sane, virtuose, trasparenti e rispettose dell’ambiente.

Un’ultima domanda sul land grabbing, l’accaparramento della terra, di cui lei si è occupato. Di cosa si tratta?

È una tendenza degli ultimi 10 anni, che vede grandi industre private acquisire terre nel sud del mondo (Africa subsahariana e sud est asiatico) per produrre cibo. Il cibo è il grande investimento del presente e del futuro, e così aziende che prima lavoravano nel capitalismo finanziario, si sono spostate verso l’acquisizione di terre al fine di controllare i meccanismi di produzione del cibo. È un grande business, un fenomeno molto sviluppato che sta cambiando i connotati dei paesi in cui opera, dal momento che si tratta di monocultura per l’esportazione per migliaia di ettari.

Liberti a Lector in Fabula

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