“Tra (me E me). Un dialogo interiore” di Angelica De Gianni: tagliare le “sacre radici” dal paese per decidere di restarvi

by redazione

Angelica De Gianni insegna Lettere. Dopo la laurea a Napoli in Filologia classica, ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Papirologia.

Nel titolo della sua prima opera letteraria – «Tra (me E me). Un dialogo interiore.» (Guida editori, 2022 – gioca sulla segmentazione del significante per regalarci due significati: “Trame E me” e “Tra me E me”. Nel primo caso abbiamo a che fare con un me e delle trame, nel secondo si evidenzia e anticipa il dialogo interiore.

L’autrice dimostra di essere attenta sia alla materialità e sonorità della parola che alla sua capacità denotativa e connotativa. Da qui la scelta di una versificazione ridotta, non di rado, alla singola parola per sottolinearne la forza e la sua capacità evocativa.:

«A volte / respiro / male, / a singhiozzi / aria a piccoli fiocchi / ma la sera, / nel letto, / solo poche volte, respiro bene. / Il fiato è disteso / appagato / lungo e morbido, / si blocca nel naso, / e dal centro degli occhi / risale in testa / e giro.» (pag. 15)

I “versicoli”, come chiamava Ungaretti i suoi versi brevi, fanno venire in mente quest’autore. In realtà, De Gianni sembra associare la sagomatura dei suoi versi ad un doppio processo: quello del respiro e quello del pensiero.

Nei suoi versicoli l’Io respira male, a singhiozzi. Entra aria a piccoli fiocchi. Il corpo è contro il muro. Fuor di metafora, c’è poco mondo in poesie così. L’Io, invece, va in giro, cammina, viaggia, vira su sé stesso, quando respira bene, quando il fiato è disteso, appagato, lungo e morbido. Più che parole-abisso (ungarettiane) scavate nel silenzio interiore della propria vita, a me sembrano parole obbligate, parole che vorrebbero soccorrere i pensieri: «Avrei voluto scrivere per giorni, tutti i pensieri / scrivere per liberare, per darmi / ma la mente trattiene e imprigiona.» (pag. 55).

Ci sono i versi brevi, ma ci sono anche quelli lunghissimi in cui l’autrice è chiaramente più attenta alla sintassi dei pensieri.

Il libretto raccoglie in tutto 34 testi. Non tutti in versi, sette sono “trame”, prose, storie. La prima è intitolata «Fino alle tempie». Parla dell’incontro con Maria. Al di là del confronto fisico (Maria ha le trecce, che all’Io non starebbero bene), sono importanti i pensieri-giudizi congetturati dall’Io e messi in bocca all’interlocutrice: «Quella ragazza era carina, forse un po’ scialba, non mi sembra avesse le idee chiare. Ma sembra felice del suo lavoro. E se questo è quello che Maria ha pensato di me? E se avesse ragione? Sono scialba.» (pag. 11). Ecco uno dei temi di quest’Io: il problema dell’incontro con l’altro/a e il timore di essere giudicata inadeguata, scialba, priva di colore, smorta, spenta.

Altri temi importanti sono: il suo aver paura di tutto, il dolore per la morte in ogni respiro, il suo strano senso di straniamento e smarrimento, la solitudine, il suo sentirsi “a pezzi” in giro per il mondo, il suo senso di colpa, la vergogna che prova nel tentativo di tagliare le “sacre radici” dal paese finché non decide di restarvi, il suo rapporto coi genitori, l’amore, la vita come una corsa, il suo odio per gli arroganti e i lecchini… Insomma, un “essere-nel-mondo” di una vita, una forma di esistenza che forse non è soltanto della giovane poetessa. Al di là del suo valore estetico (probabilmente è un frutto ancora acerbo, non privo di ingenuità e contraddizioni) questo libretto è assai utile.

La mia impressione è che dia voce alla generazione più giovane, quella dei miei nipoti (dai venti ai trent’anni). Dà voce al loro disagio, alla loro paura di non essere all’altezza, alla loro difficoltà a individuare un’identità, all’incubo del fallimento, del crollo, al senso di colpa, alla vergogna di non essere come li vuole un Tu sociale tirannico, insopportabile, performante, ossessionato unicamente dalla prestazione, competitivo. Il mondo, sembra dire questo Tu, è a portata di mano e, se non lo conquisti, la colpa è tutta tua. Non sai essere un buon imprenditore di te stesso.

Il discorso di questo Super- Io tirannico coincide con la religione neoliberista dominante in Italia e in Occidente, a partire almeno dagli anni Ottanta. È questo discorso che va rifiutato, criticato, smontato. È pieno di balle.

«La rivoluzione la dobbiamo fare noi. Figli della provincia del mondo, del lavoro in fabbrica, dei piccoli commerci, figli di chi legge la Repubblica perché vuole capire lo Stato. Quando nasci in provincia già in partenza sei in ritardo, sei lontano, sei solo. L’orizzonte mio sono le colline, il muretto dal quale guardavo i tetti da piccola e Sant’Agata davanti, appuntita. Non so qual è stato il momento nel quale ho capito che mi conveniva imparare. Senti tutti i giorni la diversità: assecondare i bisogni, assecondare gli sguardi, assecondare i sorrisi, assecondare i maestri, i parenti, la gente, il paese.» (pag. 63).

Ecco, io spero che De Gianni abbia scritto questo libretto per non assecondare più nessuno, per dare espressione ai bisogni, ai desideri, alle pulsioni e alle aspirazioni del suo corpo-mente. Un libretto per confrontarsi con gli altri, per dialogare, non per assecondare; un libretto che, fermo restante la dolcezza dell’orizzonte delle colline, sia un punto di partenza per delineare nuovi orizzonti, nuove occasioni, per mettere alla prova ed incarnare quei valori umanistici appresi e interiorizzati in anni di studi, nuove iniziative e modalità per “fare umanità”, un’umanità che non abbia timore di scoprire i molti significati di una parola come “rivoluzione”, una rivoluzione sociale, culturale, economica e politica. Non la presa di un Palazzo d’inverno, ma un processo, una guerra di posizione (culturale, innanzitutto) per la conquista di un’altra umanità. Oltre che scavo nel porto sepolto della nostra vita, la poesia è anche il sogno di questa cosa.

«La calma

e la pazzia.

Questa è casa mia.»

Donato Salzarulo

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