Tutti gli anni Settanta in un solo noir cult di Umberto Lenzi. Il volume di Paolo Spagnuolo

by redazione

Si può raccontare un’epoca attraverso un singolo film? Sì, se quel film è “Milano odia: la polizia non può sparare” datato 1974, con la regia di Umberto Lenzi con protagonisti Tomas Milian, Henry Silva, Ray Lovelock e una colonna sonora indimenticabile composta da Ennio Morricone.

Lo scrittore Paolo Spagnuolo, amico personale di Lenzi, dopo aver dedicato una monografia all’altro suo film culto “Napoli Violenta” con la celeberrima sequenza dell’inseguimento sulla funicolare di Montesanto, ha realizzato un testo ricco di aneddoti e speciali sul noir-poliziottesco che meglio identifica gli Anni Settanta, visti da destra e con l’occhio del grande pubblico di massa che ancora riempiva i cinema tutte le sere. Spagnuolo, intervistato dal giornalista Fulvio Di Giuseppe, ha presentato il suo volume monografico “Milano odia. La polizia non può sparare. Storia di un cult nell’Italia degli anni settanta” alla Libreria Velasquez di Francesco Berlingieri a Foggia davanti ad un pubblico giovane che purtroppo non aveva mai visto la pellicola, ormai disponibile su YouTube.

Molto del dibattito si è focalizzato sulla presunta ideologia che animava il genere allora. In un’epoca di grandi contrapposizioni politiche, di due colpi di Stato falliti, nel pieno degli anni di piombo del terrorismo rosso e nero, della strategia della tensione, della crisi petrolifera, dei sequestri e delle bande organizzate che cominciavano a controllare lo spaccio della droga, i poliziotteschi e i noir finivano col veicolare l’idea di una polizia, che si faceva giustizia da sé. Una polizia, con tendenze superomistiche, che sparava più di arrestare, perché la magistratura poi non avrebbe saputo dar seguito a quella giustizia. Insomma la quintessenza dell’estrema destra e della liturgia della polizia e del poliziotto tutto d’un pezzo.

Dalla costola di alcuni film di Petri e Damiani si sviluppa negli anni Settanta con buon successo, ma con intenzioni ideologiche opposte, il filone dei noir e dei poliziotteschi, cercando di prendere come modelli Il giustiziere della notte o i film di Don Siegel sull’ispettore Callaghan, film dal sapore nichilista che raccontano la disgregazione del tessuto urbano, l’insicurezza del cittadino a casa propria, il dilagare della droga e della delinquenza, l’excalation della violenza criminale e la nascita di nuovi poteri paralleli che controllano i territori dalla Sicilia a Milano, rendendo le città del Sud e del Nord simili alle metropoli americane. In questi film, che spesso sfruttano episodi di cronaca, prevale l’azione e quella violenza che il western o l’horror avevano creato in dimensioni fantastiche e metaforiche, ma che nei noir viene raccontata come possibile e molto vicina per chiunque. Al top del genere c’è senza dubbio Fernando di Leo che attinge dai racconti di Giorgio Scerbanenco e per I Ragazzi del massacro anche da un romanzo del giallista, un autore diventato di culto. In Lenzi prevale la dimensione anche grottesca, straniante e violenta.

Spagnuolo però nel corso della presentazione ha tentato di tenere lontana la lettura ideologica dei noir, dal momento che ormai anche la critica ufficiale da Mereghetti in poi ha deposto i pregiudizi. Merito ovviamente anche dei registi americani e di Quentin Tarantino che hanno sdoganato un intero genere e i registi italiani dell’epoca, dai migliori del genere- al top sicuramente Fernando di Leo ed Umberto Lenzi-fino agli autori medi, come Mario Bava ed Enzo Castellari.

Paolo Spagnuolo alla Libreria Velasquez

“Ho lavorato al libro 4 anni, il testo è pieno di interviste scritte come un racconto organico. A tutti ho chiesto la loro visione degli anni Settanta. Erano anni in cui eri per strada e potevi assistere ad una sparatoria. Milano odia rappresenta una sorta di neo- neorealismo. Si ritrovano elementi che all’epoca erano comuni, come quello di andare a rifornirsi di armi da chi possedeva in casa i residuati bellici della seconda Guerra Mondiale. Le recensioni di allora sono tremende, questi film venivano stroncati. Il 1968 non era lontano e i critici erano tutti di sinistra, manichei. Un film non impegnato non era da vedere. Le recensioni erano firmate tutte dai vice, erano dei prestampati, li stroncavano spesso senza vederli”, ha spiegato l’autore.

Milano odia è tutt’altro che un b-movie, la critica in seguito, rivalutandolo lo ha affiancato al Arancia Meccanica: la scena della villa con i borghesi appesi nudi al lampadario anticipa e raffigura la violenza di tante bande criminali e del sadismo di quegli anni, che si nutriva anche di un profondo odio di classe.

La trama è semplice: Giulio Sacchi, un delinquente folle viene marginalizzato dalla banda del Maione, per il suo errore: spara ad un vigile urbano mentre fa il palo di una rapina, fallita proprio per il suo gesto pazzo. Per vendetta e per far soldi, insieme ad altri due amici decide di sequestrare la figlia di un ricco industriale. Da qui si susseguiranno scene di violenza e uccisioni senza motivo. Per il puro desiderio paranoico di uccidere. Una violenza così devastante, che non può non rinviare al terrorismo, ma del tutto decontestualizzata nel noir. “Tutta la città sta diventando una gabbia di matti e noi stiamo diventando il bersaglio del loro tiro a segno”, dice ad un certo il poliziotto.

La sceneggiatura di Ernesto Gastaldi è perfetta. Ma il libro di Spagnuolo si concentra anche su tanti aneddoti riguardanti Tomas Milian-Giulio Sacchi.

“Milian era un drogato, assumeva mix di psicofarmaci ed eroina, nella scena del sequestro quelle pillole sono vere e gli attori sono davvero drogati. Milian recitava alterato, pieno di tic. Una cosa che faceva spesso era cambiare i dialoghi, cosa che faceva imbestialire Lenzi, un regista conosciuto per i suoi scatti d’ira. Girava sempre incazzato”. Nel libro si introduce anche uno scoop. Milian a Spagnuolo racconta nell’intervista rilasciata che fu proprio l’ultima scena del film ad ispirare lui e Lenzi per il noto personaggio di Er Monnezza, diventato poi la maschera principale dell’attore italocubano.

È una scena che ha fatto la storia del cinema di genere. Erano film che venivano tacciati di essere di estrema destra, ma Lenzi era un anarchico. Erano violenti sì, ma erano soprattutto film di intrattenimento. La chiave era sempre quella dello spettacolo e Lenzi era un maestro perché con pochi soldi riusciva a fare grandi film. Quella dei film di genere era una industria vera, la gente lavorava. Ed era obbligatorio far cassa, i noir riempivano le sale”, ha detto con amore Spagnuolo.

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