“Tutti i pezzi di una storia qualsiasi” di Jonnie, gli ordinari fallimenti per la ricerca della felicità in un irriverente manuale

by redazione

Tutti i pezzi di una storia qualsiasi è il concept albook della cantautrice torinese Jonnie, già conosciuta per Portrait. L’album musicale accompagnato dall’autobiografia della cantautrice racconta gli ordinari fallimenti, nella forma di un irriverente manuale, per la ricerca della felicità senza superpoteri. Nato durante il primo lockdown, come risposta autoironica a domande esistenziali – Che ne sarà di noi? Come rimettere insieme i pezzi della mia storia fino a qui? Dovrei preparare un’altra torta? -, con questo nuovo concept al book Jonnie mette in scena le irrequietezze contemporanee di tutti noi, gettandosi alla ricerca del collante narrativo con cui diventiamo chi siamo mentre lo raccontiamo.

Le canzoni dell’album hanno il suono dei sogni che vanno in frantumi, degli ideali che si spezzano, degli amori perduti, di come si sopravvive quando tutto va in pezzi. Le pagine del libro, nella chiave brillante di un’autobiografia non troppo romanzata, rivelano la straordinarietà di una storia qualsiasi, vissuta per essere raccontata.

Di seguito un estratto del libro.

“Come ogni bambina di tutto rispetto avevo un walkman. 

Da quando me ne regalarono uno giallo, con l’oblò da cui si vedeva la cassetta girare, non passava un giorno che non me lo portassi dietro, attaccato alla cintura elasticizzata dei pantaloni (una pista da corsa per topolini) e, prima ancora di metterci dentro della musica, ci ascoltavo le storie. 

Durante le giornate di commissioni, mia madre si assicurava che avesse le pile cariche, con almeno una cassetta dentro e, fino a che non cominciai ad andare a scuola, tutto quello che sapevo veniva dal mio walkman. 

Sapevo che le vecchiette brutte alle fontane sono quasi sempre delle fate che possono esaudire i tuoi desideri (o trasformarti in un topo a due teste), che se qualcosa non veniva al primo colpo bisognava tentarne almeno tre, che ci si poteva fidare dei rospi ma non dei taglialegna. Che non bisognava mai prendere la strada più breve, ed era sempre meglio diffidare da volpi, scorpioni, merli o qualsiasi altro uccello, se era amico delle cicale. 

Ogni sabato pomeriggio viaggiavo nel carrello della spesa tra gli scaffali dei grandi magazzini, mentre imparavo ad avvistare mostri degli abissi e cavalcare grifoni giganti. 

    «Resta qui» mi diceva la mamma, prima di allontanarsi. 

Ma io non sempre sentivo quello che diceva. Facevo sì con la testa e mi rannicchiavo in qualche angolo, stringendomi le cuffie sulle orecchie. 

Un sabato verso la fine degli anni Novanta, rimasi un pomeriggio intero seduta su un pacco di Dixan, prima di accorgermi che mi stavano cercando dagli altoparlanti del supermercato. E non sarebbe stata la prima volta che mi presentavo con una mano alzata in cassa 8 a prendermi la solita ramanzina, se non fosse che ero impegnata a seguire una sfida a singolar tenzone di D’Artagnan. 

   «Come farai a cavartela da sola, quando sarai grande?» mi sgridò mamma, una volta in macchina. 

Io risposi che, un giorno, avrei avuto un cavallo e una spada e con quelli avrei sconfitto ogni difficoltà. Ma lei disse di no. Che non bastava. Ci voleva molto di più.  

Io non ero sicura di cosa volesse dire ma capii che non sarebbe bastato cavarsela così così, per diventare grandi. Bisognava essere dei veri eroi. 

Bisognava non sbagliare mai e (oltre a non perdersi) trovare sempre la strada giusta, saper mantenere i segreti, difendere i più deboli, sopportare le avversità e ovviamente (soprattutto) trovare il vero amore, perché non serve essere eroi senza qualcuno a cui dimostrarlo. 

Così, la prima cosa che feci quando imparai a scrivere fu una lista di cose da fare.  

La scrissi, non so perché, con l’evidenziatore giallo della mia vicina di banco (mi avrebbe poi spiegato che non si usava così) e, al primo punto della mia lista su foglio protocollo a quadretti, segnai: trovare i miei superpoteri. 

Non era un piano facile ma il mondo per me era solo un posto come un altro dove avevo deciso di vivere in maniera straordinaria e qualsiasi fosse stata la mia storia, sarebbe stata la più incredibile mai raccontata in un walkman. 

Avrei tenuto le formiche tra le mani fino a che non mi avessero parlato di tesori nascosti. Avrei riempito di sassolini bianchi il mio zaino in vinile a forma di Topolino, per quando mi sarei persa in un bosco. Avrei avuto anche una spada e sarei riuscita finalmente (chissà come) a trasformare la mia tartaruga in un cavallo. 

Sarebbe stata, la mia, una vita di vere e proprie avventure, se solo fossi riuscita a rendere reali quelle che mi raccontavo nella testa, ma poi, per fortuna o per sbaglio, quella vita ebbe anche più fantasia di me. 

E questa è la storia di come è andata in realtà.  

P A R T E   P R I M A   

Uno 

Come tanti, sono venuta al mondo per puro caso. 

La mia mamma e il mio papà non si sarebbero mai incontrati in un luna park, un pomeriggio qualsiasi di un marzo degli anni Settanta, se lei avesse seguito i consigli della nonna riguardo ai meridionali, e se mio padre, da piccolo, non fosse stato un irrimediabile rompiscatole. All’età di otto anni, infatti, mentre il tecnico del gas cambiava la bombola in cucina, fece il diavolo a quattro per certe figurine Campioni Sport Cicogna (mancava Baldini) e, convincendo nonna Gina a uscire per comprarle, salvò entrambi da un’esplosione che mandò in frantumi tutti i vetri dell’appartamento e curvò la porta blindata dell’ingresso. 

Il suddetto tecnico morì dopo tre giorni di coma presso l’ospedale Cottolengo di Torino, in una giornata piena di sole e, per ragioni dettate dalle non trascurabili controindicazioni della legge di Gay-Lussac, non ebbe una discendenza. Mentre, per quanto riguardava mio padre, la sua collezione di figurine rimase sempre incompleta (Baldini era introvabile) ma, quantomeno, il destino gli riservò una progenie. 

Si accorsero della mia presenza circa vent’anni dopo quando, nello stesso ospedale, mia madre andò a trovare la nonna Gina in botta di morfina, nello stadio terminale di un brutto cancro.  

   «Tu sei incinta» le disse la nonna, quel giorno. 

Mia madre le strinse una mano, sillabando sottovoce a un’infermiera di passaggio: «Più-mor-fi-na». 

   «Ed è una femmina» aggiunse poi. 

Papà cercò di nascondere la sua commiserazione, le disse «Ma certo, mamma», e per un po’ non ci pensarono più. 

Quando poi la nonna morì, due settimane dopo, mia madre fece un esame per degli strani dolori all’addome e saltò fuori che quei dolori erano per colpa mia.  

Sarei dovuta nascere il giorno in cui la nonna avrebbe compiuto cinquantasei anni, se fosse sopravvissuta al cancro ma, per timore di una qualche reincarnazione, quel giorno mia madre non si alzò dal letto neanche per pisciare e tenne le gambe chiuse fino a che, due giorni dopo, nacqui io.”

I lunghi mesi di chiusura dei locali hanno portato Jonnie a riversare tutta l’energia delle sue performance nel busking, ritrovandosi a suonare e collezionare incontri e avventure per le strade e le piazze dello Stivale da Nord a Sud.

Ora Jonnie è pronta a trasportare il frutto di tutte le sue sperimentazioni sul palco dell’AlfaTeatro di Torino il 25 marzo in uno spettacolo live per la presentazione del suo nuovo concept albook.

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