Un prozio rivoluzionario e un graphic novel: Alice Milani racconta Don Lorenzo

by Felice Sblendorio

Alcune storie sono nel nostro destino, da sempre. Lo sa bene Alice Milani, pronipote di Don Lorenzo Milani, figura illuminata, affascinante e problematica per il mondo culturale e cattolico del Novecento. Visionario, rivoluzionario, eretico. Poi prete, scrittore, politico, educatore: tutto sfugge in modo indefinito quando si parla di lui, di quell’ostinato prete di montagna nato in una famiglia fiorentina agnostica e agiata.

Come ha scritto Eraldo Affinati ne “L’uomo del Futuro”, Lorenzo Milani continua a essere inafferrabile come una domanda inevasa, come una spina nel fianco, come un pensiero in movimento. È ancora così, oggi, a più di cinquant’anni dalla sua morte. L’eredità che ha lasciato ritorna nel presente complessa e sfaccettata: la sua chiesa, il modello singolare di scuola, la visione e la pratica della sua fede, il modo di concepire la politica. Tutto è ancora inquieto, scottante e drammaticamente attuale come dimostra il graphic novel “Università e Pecore” (Feltrinelli Comics, 160 pagine, 18 euro), disegnato e scritto da Alice Milani che, attraverso i racconti di sua nonna Maria Teresa, ripercorre la vita e le contraddizioni di quel parente così scomodo. Milani, artista fra le più note del panorama attuale – già autrice per BeccoGiallo e direttrice per la stessa casa editrice di “Rami”, una nuova collana di fumetto e fiction – unisce con maestria e potenza scorci familiari e pubblici, privati e politici per raccontare le contraddizioni e le battaglie, i grandi ideali, i pensieri e le delusioni del priore di Barbiana. Così, in queste tavole agitate e piene di colori forti, il volto austero e inquieto di Lorenzo Milani ritrova una fisicità realistica simile a quella di un padre imponente da cui è impossibile fuggire. bonculture ha intervistato l’autrice.

L’autrice

Dopo le biografie su Maria Curie e Wislawa Szymborska si è cimentata con una storia che per lei è privata e pubblica, familiare e collettiva: la vita del fratello di suo nonno, Don Lorenzo Milani. Quando ha compreso che era arrivato il momento di cimentarsi con un racconto così personale?

Da anni avevo in mente di lavorare sulla figura del mio prozio, ma ho dovuto aspettare di essere una fumettista un po’ esperta. Non sarebbe stato facile affrontarlo come opera prima: Don Milani è stato una personalità complessa, sfaccettata, piena di contraddizioni. É stato spesso frainteso, mal interpretato, strumentalizzato. Volevo fare un lavoro che rendesse giustizia a tutti gli aspetti del suo pensiero, sia quello politico che quello religioso, e questo non era facile. Per questo ho aspettato.

Il libro parte dalla sua famiglia: la cornice dell’opera è un dialogo con sua nonna Maria Teresa che ricorda la figura del priore di Barbiana. I frammenti, i dettagli e i racconti privati cosa le hanno donato in più sull’uomo?

Mi hanno permesso di tratteggiarne il carattere: infiammato, a volte intrattabile, intransigente, estremo, ma sempre onesto, sincero e profondamente empatico. Del resto, il carattere di Don Lorenzo era a tratti simile a quello di mio padre, quindi chi poteva capirlo meglio di me?

Questo spaccato intimo sottolinea in maniera immediata una sorta di distanza, quasi una contraddizione, fra la scelta di Don Lorenzo e il mondo sociale della sua famiglia. Lei accenna al tema della vocazione, ma nell’opera non è un elemento centrale. Che idea si è fatta, però, di quella scelta? Nessuna conversione si può realmente comprendere?

Il personaggio di mia nonna serve proprio a far vedere la distanza abissale tra i modi di vivere, le idee e le convinzioni della famiglia da cui Don Lorenzo veniva e il mondo in cui lui ha deciso di vivere tutta la sua vita di parroco, in montagna, tra gli ultimi degli ultimi. La sua doveva essere una vocazione incredibilmente forte per indurlo a fare una scelta così estrema, ascetica, quasi da santo. Sono cose difficili da capire che per chi non è credente. Noi da non credenti (intendo io e la mia famiglia, ad esempio) possiamo capire il valore enorme delle sue scelte e delle sue azioni. Comprendere i motivi profondi di una conversione, però, mi sembra impossibile se uno non ci è passato.

Il titolo non è una suggestione, anzi: “Università e pecore” ricorda la lettera che lui scrisse a un suo amico magistrato, Gian Paolo Meucci. “Sono trecent’anni che la famiglia secolarmente alfabeta di Adolfo mantiene agli studi la famiglia secolarmente universitaria del signorino”, scriveva.La sua teoria del conflitto era già tutta qui?

Esatto. Sono cose che erano sotto gli occhi di tutti, su cui lui puntava il dito in maniera più brutale e diretta di chiunque altro. Soprattutto, lui non si limitava a descrivere queste disuguaglianze e ingiustizie. Lui dedicò tutta la sua vita a cercare di appianarle, per quanto in suo potere. La mia famiglia è ricca di cultura? Io vado a fare il prete di campagna e fondo una scuola per dare tutta la cultura che ho a questi ragazzini che altrimenti rimarrebbero ignoranti, più simili alle bestie che agli esseri umani, destinati a farsi mettere i piedi in testa ancora per generazioni. Io abbandono le velleità della mia classe sociale, gli studi universitari che potrei permettermi in quanto privilegiato e mi dedico solo agli ultimi. Questo sì che è un modo per fare nel suo piccolo, che era quella umile parrocchia, una lotta di classe.

A Nadia Neri, invece, scrisse: “E allora se vuoi trovare Dio e i poveri bisogna fermarsi in un posto e smettere di leggere e di studiare e occuparsi solo di far scuola ai ragazzi dell’età dell’obbligo e non un anno di più. Ti ritroverai credente senza nemmeno accorgertene”. Di base, per lui, con le lettere si potevano fare le parole e con le parole si poteva fare tutto, anche salvarsi.

Sì, con la parola si insegna a ragionare e a esprimersi, che sono strumenti utili per non farsi raggirare dal padrone di una fabbrica, dal gestore di una scuola guida, da un politico, ma sono anche gli strumenti per provare a leggere e a capire il Vangelo. Dare tutto questo agli ultimi era per lui il modo di provare a salvare la sua anima di ricco egoista privilegiato. Era questa la sua vocazione.

Quel modo o modello di fare scuola ha insegnato a molti l’urgenza “politica” che serve ad ogni comunità per far crescere un “Noi” all’ombra di ogni “Io”. Lei sottolinea molto la portata politica del messaggio di Don Milani: serve a combattere l’indifferenza e l’ingiustizia l’educazione alla politica?

L’intento era proprio quello di creare in ciascuno una coscienza che tiene conto degli altri. Per lui la coscienza borghese era molto individualista, e non avrebbe portato a nessun cambiamento nell’ordine sociale. Una coscienza di impegno politico invece avrebbe messo in atto rivoluzioni.

Le ultime tavole di “Università e pecore” parlano della sua morte e della risposta attesa dal Cardina Florit, di quell’atto solenne che Lorenzo desiderava per non veder archiviata la sua esperienza pastorale come un “fatto privato”. Quanto pesò sul suo vissuto quell’atteggiamento così ostile da parte della Chiesa?

L’ostilità di Florit fu per lui motivo di grande amarezza. Ci sono voluti cinquant’anni dalla sua morte prima che la Chiesa ufficialmente lo riabilitasse. 

Lei ha capito di che cosa lo rimproveravano? Aveva risparmiato alla sua gente anche il calcetto, il cinema parrocchiale…

Lo rimproveravano di essere un anticonformista, essenzialmente. Nessun prete applicava il Vangelo così alla lettera. La sua missione in quanto prete era quella di evangelizzare: ma come si fa a portare la parola di Dio a un popolo che a malapena capisce l’italiano? Per questo lui concentrò tutte le sue energie sull’insegnamento della lingua, invece che sulle attività ricreative, futili. I ragazzi che venivano alla scuola popolare avevano poco tempo, a 14 anni sarebbero finiti a lavorare in fabbrica, dovevano costruirsi degli strumenti in pochi anni, non c’era tempo per giocare, per questo Don Milani era così ferocemente contrario allo svago e alla ricreazione. L’altro grosso motivo di disaccordo con il Cardinale era che Don Milani scriveva, interveniva pubblicamente quando non era d’accordo su qualcosa, e questo gli aveva guadagnato la fama di rompiscatole a Calenzano (dove ebbe il suo primo incarico di cappellano). Lui puntava anche il dito sulle storture e sulle meschinità del clero, pur facendo parte della Chiesa. Per questo divenne l’idolo degli intellettuali di sinistra anticlericali, e fu etichettato come prete comunista, quando in realtà era anticomunista. Il Cardinale però non intervenne mai in sua difesa, di fronte a queste accuse illegittime.

Artisticamente l’essenza più pura di questo lavoro è una passione incandescente che dona inquietudine e vitalità ai suoi protagonisti. Perché ha scelto tratti netti, accesi, quasi fulminei?

Il disegno doveva esprimere il carattere forte e battagliero di Don Milani, quindi sì, ho usato un tratto deciso e sintetico, e colori accesi. Mi sono concentrata meno sulle ambientazioni e sui paesaggi, ma più sul personaggio.

In questo graphic novel lei ricorda il filo rosso che lega Lorenzo ad Alice: l’arte. Il suo prozio che, prima di diventare prete, dipingeva e frequentava l’Accademia di Brera scrisse in “Lettera a una professoressa”: “Così nasce l’opera d’arte: una mano tesa al nemico perché cambi”. È una guida inscindibile per il suo lavoro?

“Lettera a una professoressa” veramente fu scritto dai ragazzi della scuola di Barbiana, sotto la direzione di Don Lorenzo ormai molto malato. Comunque, è vero: per lui l’arte era un modo di arrivare agli altri in modo diretto, senza fronzoli, onesto. Solo che anziché usarlo lui, insegnò il metodo a dei ragazzini che mai si sarebbero immaginati di essere artisti, ma che avevano un sacco di cose da dire. Questo è per me un esempio da tenere sempre in mente.

You may also like

Non è consentito copiare i contenuti di questa pagina.