Vita e amore di Francesca Morvillo. Cavallaro: «Francesca non avrebbe mai lasciato solo, come fecero tutti gli altri, il suo Giovanni Falcone»

by Felice Sblendorio

C’è una data, precedente alla Strage di Capaci, che cambia la vita di Giovanni Falcone: mercoledì 21 giugno 1989, il giorno del mancato attentato all’Addaura. Una bomba nascosta nella scogliera non esplode, ma il messaggio è inequivocabile: Falcone, l’uomo del Maxiprocesso contro Cosa Nostra, è oramai l’obiettivo principale. Quella sera, per dare un segnale ai mafiosi, Falcone resta lì, mentre sua moglie, Francesca Morvillo, ritorna a casa. In Via Notarbartolo 23, a Palermo, Francesca gli scrive un messaggio d’amore: «Giovanni, amore mio, sei la cosa più bella della mia vita. Sarai sempre dentro di me così come io spero di rimanere viva nel tuo cuore, Francesca».

Partendo da quelle parole, e ricostruendo la vita professionale e intima di Morvillo,il giornalista Felice Cavallaro, che da anni racconta fatti e misfatti di mafia per il Corriere della Sera, ha realizzato con “Francesca. Storia di un amore in tempo di guerra” (Solferino, 305 pagine, 18.50 euro) un ritratto lieve e delicato di una vittima di mafia troppo spesso dimenticata. bonculture ha intervistato Felice Cavallaro.

Questo libro tenta di colmare, andando oltre gli inevitabili processi della memoria, un vuoto: un vuoto che porta il nome di Francesca Morvillo.

Colmare un vuoto, esattamente. Spesso abbiamo raccontato Falcone, Borsellino, altre vittime di mafia, ma mi sono chiesto negli ultimi anni: che cosa conosciamo di Francesca? Per molti è stata (e resta) solo la moglie di Giovanni Falcone. Scavando nella sua storia, invece, si scopre che è stata una protagonista della lotta alla mafia combattuta accanto ai magistrati del pool. Condivideva con loro, e con suo marito principalmente, le ansie e la vita blindata, il lavoro e le analisi. Di notte, a casa, rileggeva gli atti giudiziari assieme a Giovanni. E insieme correggevano quelle carte, lasciando appunti a matita sui fogli.

Il filo principale di questa storia è il loro amore: un amore in tempo di guerra che, nonostante tutto, resiste.

La loro vita è scandita dalla guerra di mafia siciliana e da una serie di episodi che irrompono nella quotidianità di Francesca e Giovanni. Si conoscono in una gita fra amici ed è lì che scatta la prima scintilla. Lui ha una vita matrimoniale già conclusa, mentre lei è ancora sposata. La presenza di Falcone provocherà inquietudine e tormento: sarà Francesca a scegliere di separarsi per assecondare quell’affinità di vedute, di intese e di intimità quasi spirituale con Giovanni. Ma quell’amore sin da subito è condizionato da quello che succede fuori dalla loro casa. Non c’è mai tempo per una gita fuori porta oppure per una fuga d’amore perché prima uccidono Boris Giuliano, poi Piersanti Mattarella, Pio La Torre, Rocco Chinnici. È uno scandire continuo di morte che, nonostante tutto, porterà quest’amore a diventare l’unico rifugio possibile per ripararsi dalla totalità angosciante di quella battaglia.

Francesca spesso mostrava insofferenza per «l’insidiosa Palermo». Che rapporto aveva con quella città che sopportava a fatica la loro presenza?

Un rapporto conflittuale. Una certa connivenza o, addirittura, una convivenza esisteva fra un ventre molle della città e la mafia. Anche chi non era mafioso si scopriva permeato da quella mentalità. La signora che in quegli anni scrive una lettera al “Giornale di Sicilia” contro il rumore delle scorte dei magistrati, chiedendo che vengano lasciati soli in una sorta di ghetto lontano, è il sintomo estremo di quella contiguità. La signora scrive e il giornale la pubblica senza una contestazione, senza un dibattito. Quella gente non possedeva le coordinate del vivere civile. Nel vivere civile non si può guardare la partita dalla tribuna, ma bisogna schierarsi con chi combatte la mafia. Quella lettera, oggi, il giornale sicuramente non l’avrebbe pubblicata.

Le cose, quindi, sono cambiate?

Certo, sono cambiate, però che ci sia una piena consapevolezza a tal punto da dire no a certi ritorni di fiamma in politica di persone condannate per mafia è una cosa che inquieta. Inquieta Alfredo Morvillo e inquieta Maria Falcone. Le cose, soprattutto nel mondo politico, non sembrano così lineari come vorremmo. L’attenzione deve rimanere sempre viva. Questa storia serve a ricordare che c’è stato un tempo di guerra che ha impedito a tutti, non solo a Francesca e Giovanni, di essere liberi. Sì, liberi: perché il dominio mafioso indebolisce la democrazia e annulla la libertà.

La memoria, dopo trent’anni, a che cosa serve? E che cosa deve custodire?

Bisogna distinguere, come dice Nando dalla Chiesa, la commemorazione dalla memoria. Per Falcone i riti erano fondamentali per imporre la presenza dello Stato; dunque, sono d’obbligo le commemorazioni e sono scontate le possibili cadute retoriche. Però, una cosa sono le commemorazioni e un’altra è l’esercizio della memoria. Bisogna ricordare queste persone non per come sono morte, ma per come hanno vissuto: erano persone normali che, nel loro tempo, hanno fatto quello che ognuno di noi dovrebbe fare. Non si tratta quindi di commemorare degli eroi, ma di ricordare, custodire e imitare l’esempio del loro dovere.

Francesca è stata un’importante magistrato al Tribunale per i Minorenni di Palermo. Era convinta che bisognasse salvare ogni ragazzo, a ogni costo.

Questa sua attenzione ha delle radici nella sua biografia. Dopo il diploma, e prima di diventare una delle prime donne a superare il concorso di magistrato, suo padre le consiglia di studiare in estate per la maturità magistrale. Studia, e quel titolo le serve, dopo un paio di anni, per lavorare in un doposcuola per i figli dei carcerati che si trova a Borgo Vecchio, un quartiere popolare ma vicinissimo a Piazza Politeama. Lì comprende che quei bambini vanno acchiappati uno a uno per strada. È la stessa cosa che faceva Don Pino Puglisi a Brancaccio: recuperare ogni ragazzo. In quel micromondo, Francesca scopre la necessità di recuperare una parte viva della società che sembra quasi predestinata al peggio.

Perché era così ossessionata da una certa educazione deviante delle madri siciliane?

Era arrabbiata con le madri che crescevano male i loro figli. Il suo messaggio era rivolto alle donne che sbagliavano. C’è una filosofia da matriarcato siciliano, che ci porterebbe a Sciascia, che pensava che un certo tipo di donne siciliane erano un freno al bene. In molti casi era proprio così. Non tutte ovviamente, come dimostrano queste donne che raccontiamo e che, proprio in Sicilia, hanno tentato di scuotere le coscienze.

Francesca non è mai diventata madre.

A Falcone viene attribuita una frase – «non si mettono al mondo orfani» – che, in verità, Alfredo Morvillo non ricorda di aver mai sentito pronunciare. Sicuramente ci avranno pensato, soprattutto nell’ultimo periodo che, incredibilmente, faceva presagire che qualcosa stesse cambiando. Non so se non ci siano riusciti, oppure non lo hanno voluto. Resta certo, però, il rapporto quasi filiale con i loro nipoti, con la figlia di Alfredo e con i figli di Maria.

Per ogni uomo ucciso, Francesca pensava alle donne: alle mogli, alle madri, alle sorelle. In questo solco del sacrificio femminile pensava anche a sua madre.

Provava dolore davanti alle donne che in quella città perdevano ogni giorno padri, mariti, figli, fratelli. Un incontro importante fu quello con la madre di Emanuela Setti Carraro, la moglie del Generale Carlo Alberto dalla Chiesa. A un anno dall’eccidio, Francesca risponde a una lettera della madre di Emanuela e la incontra a casa sua. Quando stringe quella donna così provata dal dolore per la morte di sua figlia ha un sussulto: in quella sofferenza intravede il dolore possibile, nell’ipotesi peggiore, di sua madre. Un’ipotesi che si verificherà esattamente dieci anni dopo.

Nel loro ultimo viaggio, quello del 23 maggio 1992, Francesca non si distacca da suo marito. Quanta consapevolezza aveva del pericolo?

Francesca era un magistrato, una donna che si stava occupando del processo contro Vito Ciancimino: una persona, dunque, colpita non a caso. A lei era stata offerta una scorta, ma l’aveva rifiutata: era consapevole del pericolo, ma voleva rischiare il peggio assieme a lui. Aveva dedicato una parte della sua vita alla protezione di Falcone e la loro vicinanza fisica era la cosa più scontata. Francesca non avrebbe mai lasciato solo, come fecero tutti gli altri, il suo Giovanni.

Le sue ultime parole lo testimoniano.

Quando l’apocalisse di Capaci si avvera, la prima macchina salta in aria con Antonio, Vito e Rocco. La seconda macchina, invece, si spezza in due. Francesca e Giovanni vengono estratti dalle lamiere e portati in fin di vita all’ospedale. Mentre un infermiere le pulisce il volto ferito e già incrostato di sangue e detriti, Francesca socchiude gli occhi e chiede: «dov’è Giovanni?». Sono le sue ultime parole: quelle di una donna senza più forze che cerca, quasi disperatamente e inconsciamente, di proteggere ancora il suo uomo.

You may also like

Non è consentito copiare i contenuti di questa pagina.