Vito Mancuso fra origine e motivazione della responsabilità

by Felice Sblendorio

Vito Mancuso è uno dei teologi più importanti del nostro Paese. Non si contano le pubblicazioni e le edizioni dei suoi libri che, nonostante i temi complessi e specifici, vengono sempre più letti e discussi. Apprezzato dai più per la sua capacità di porre interrogativi e di utilizzare e animare una teologia slegata dalle logiche dogmatiche e autoritarie che a suo avviso dominano ancora il cattolicesimo, l’impegno fra ricerca e divulgazione di Mancuso è tutto legato all’affronto delle ombre e delle contraddizioni strutturali della dottrina.

In attesa del suo nuovo libro che uscirà a breve per Garzanti, “La forza di essere migliori”, Mancuso sarà uno degli ospiti più attesi della diciottesima edizione de “I dialoghi di Trani”. La sua lectio, in programma giovedì 19 settembre a partire dalle ore 20.30 presso la Cattedrale di Trani, sarà incentrata sulla parola chiave dell’edizione 2019 del festival: “Responsabilità: origine e motivazione”. bonculture ha intervistato Vito Mancuso chiedendogli di anticipare i temi del suo intervento.

Partiamo dal tema di questa edizione dei “Dialoghi”: viene naturale pensare al confronto fra Jonas e Bloch, che sarà peraltro il tema della lezione del professor Bodei. Per il credente, oggi, è necessaria più la responsabilità o la speranza?

Si può essere responsabili e rendere la nostra azione effettivamente efficace anche senza coltivare una speranza. Su questo tema io partirei da cosa significa responsabilità. È una parola che rimanda ad una risposta: capire la domanda e rispondere con una relazione positiva al contesto. Se non c’è la speranza che la nostra risposta possa essere azione concreta e coordinata con il contesto, non si dà esercizio della responsabilità ma si apre una lotta per affermare un particolare punto di vista, a dispetto o contro gli altri, senza alcun tentativo di rispondere. Questo apre a una visione armoniosa dell’essere perché rispondiamo alle varie domande dell’ambiente, stabilendo che più siamo responsabili e più la nostra struttura non sarà individualista ma relazionale: non un atomo che può prescindere da tutti gli altri, ma una domanda in cerca di legami, di relazioni. Essendo io questa domanda, nella misura in cui la esplicito facendola diventare una risposta rispetto alle domande degli altri, io fiorisco.

Da una parte la forza dentro ciascuno di noi per sostenere una risposta responsabile e dell’altra l’impegno all’autentico, al vero: come si conciliano?

Sono temi correlati. Dicendo responsabilità, siamo immediatamente in un contesto etico, in particolare in un problema della motivazione dell’etica. La motivazione più profonda dell’etica è quella che fonda sul sé e non su istanze esterne (la Bibbia, il Papa, quel filosofo, il partito o il movimento). Nella prospettiva kantiana, che poi è quella mia, essere responsabili – con autenticità e autonomia – rimanda direttamente alla propria natura. E la natura peculiare è la relazione. Per cui la forza per essere responsabili non può venire dall’esterno, da un’obbedienza ad istanze lontane da noi, ma da una interiore, da una logica propria, di ciascuno. Brutalmente: bisogna essere responsabili per non tradire se stessi.

Uno dei suoi libri tratta del dolore innocente. È una delle domande più difficili a cui rispondere: perché Dio non interviene? Qual è la responsabilità di Dio nel dolore, nella sofferenza che non può difendersi?

Questa questione è la causa che mi ha portato a prendere le distanze dal pensiero ufficiale della Chiesa Cattolica perché credo che sia, più di altre, una questione totale, un tema decisivo per la natura umana. È grazie al dolore e alla meraviglia e alla bellezza del cosmo se è nata la spiritualità, sia come religione che come filosofia, ovvero quelle dimensioni che portano gli esseri umani a sentirsi diversi dalla pura materia, dal puro elemento biologico. Non riuscire a rispondere in maniera coerente al perché del dolore è un problema strutturale. Continuare a pensare, come fa il catechismo attuale, che Dio dall’alto possa impedire il male perché dotato di onnipotenza e tuttavia non lo fa per trarre un bene maggiore (e lo si dice in ben tre articoli: 311, 395, 412), credo sia una cosa poco accettabile: una teoria che fa di Dio, parlando di responsabilità, una Persona come minimo poco responsabile. Così il dolore innocente mi ha portato a pensare a Dio in maniera diversa dall’ortodossia cattolica. Io non rinnego la mia appartenenza e non sono diventato ateo o altro, ma capisco le aporie che ci sono, non piccole, e quindi vado oltre: sono post cattolico.

Solidarietà e responsabilità sono le parole d’ordine del futuro, le uniche che forse renderanno possibile averne uno. È così?

Le parole sono importanti. Trovare le parole giuste è decisivo affinché le azioni possano essere giuste. Uno degli sforzi è la pulizia delle parole, la coerenza fra le parole e le azioni. Come diceva il vecchio Confucio, quando un discepolo li chiese: “Maestro, se l’imperatore ti desse il comando sul celeste impero tu cosa faresti?”, bisogna rettificare i termini. Significa rendere retti i termini rispetto alla realtà per far scaturire azioni giuste. Credo che proprio il termine responsabilità sia fondante, sì: lo ricorda ancora con forza il libro di Hans Jonas, “Il principio responsabilità”. È una parola piena che, ripeto, costruisce armonia.

Lei ha paura di questo tempo considerato da molti deresponsabilizzato?

No, come sempre questa è l’umanità. Basta leggere i testi antichi per capire come questo lamento sia antico e ciclico: da Macchiavelli a Confucio, passando per i testi dell’antico Egitto, c’è sempre questo lamento contro l’odio, l’ignoranza, la corruzione, il male. Io poi, francamente, non credo che i nostri tempi siano messi peggio di altri. Da questo punto di vista la nostra società ha tante informazioni tali da alimentare la consapevolezza critica che l’armonia e l’interdipendenza non sono una pia esortazione al volere bene, ma una consistenza fisica decisiva. È la scienza che ci insegna che è la logica della relazione la sostanza dell’essere. L’essere solitario non serve a nulla, senza questa grande danza che è il mondo. Non viviamo tempi peggiori: la sola disposizione del nostro tempo al dialogo con le altre culture è già un privilegio non da poco.

Lei scrive e dialoga in contesti diversissimi e sempre affollati. Ha la responsabilità di una comunicazione difficile: mediare i contenuti della teologia e il linguaggio che li esprime. C’è una difficoltà principale che incontra nella divulgazione?

Quando le idee sono molto chiare si riesce ad esprimerle molto bene alle persone e nei contesti più grandi. Io ho molta stima per il pensiero chiaro e distinto, come diceva Descartes. Più il pensiero è chiaro e più diventa semplice, pulito, lineare. Così diventa naturale comunicarlo. Io non vedo conflitto fra ricerca e comunicazione. Certamente non sono due cose simili ma quando la ricerca è autentica, profonda e veritiera, si produce un pensiero pulito. La semplicità è il punto di arrivo e non di partenza. Quando un pensiero sa quello che può dire può essere facilmente fruito.

Sicuramente per lei non è facile essere credente e non riconoscersi appieno nella dottrina della Chiesa. Fare teologia però è un’altra cosa e implica, credo, la responsabilità del dissenso. Come la vive?

La vivo con molta semplicità, perché io non mi preoccupo più dell’istituzione Chiesa Cattolica. Mi preoccupo della coerenza delle mie idee e del servizio alla coscienza morale del Paese, anche se è un po’ enfatico, quindi direi dei miei lettori. Non sono stato mai funzionale al sistema, non ho mai avuto una missio canonica, non ho mai fatto il teologo ecclesiastico. Quindi non parlerei neanche di dissenso, che forse c’era all’inizio. Attualmente il mio problema non è il dissenso con quello che dice o fa il magistero, ma il mio percorso teologico e filosofico che, per me, è un cammino inscindibile.

Esiste ancora un tema o un problema percepito come tabù dalla riflessione teologica?

Esistono problemi e temi come quello del dolore dove non c’è sempre la coerenza di trarre le conclusioni rispetto all’immagine di un Dio onnipotente che vede e provvede. Su temi generali, però, non credo ci siano dei tabù. La libertà di cui ha goduto la ricerca teologica dal Novecento in poi credo abbia aperto alla libertà più totale su tutti i temi. Poi le risposte possono essere poco libere e coerenti fino in fondo, ma alla fine ognuno fa quello che può.

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