Yasmina Reza e la narrazione polifonica sulla felicità e sull’amore del romanzo “Felici i Felici”

by Paola Manno

Drammaturga, sceneggiatrice, attrice e scrittrice francese di origine iraniane e ungheresi, Yasmina Reza è l’autrice di uno dei romanzi più interessanti dell’ultimo decennio: Felici i Felici, pubblicato da Flammarion nel 2013 e in Italia da Adelphi. Vincitore del premio letterario “Le Monde” nello stesso anno, il romanzo prende il titolo da una citazione di Jorge Luis Borges, riportata in spagnolo nel testo: Felices los amados y los amantes y los que pueden prescindir del amor. Felices los felices (Felici gli amati e gli amanti e coloro che possono fare a meno dell’amore. Felici i felici).

È dunque di felicità che il romanzo si occupa e lo fa attraverso una narrazione polifonica, grazie alle voci dei tanti personaggi che sono legati, tra loro, da rapporti più o meno stretti. Ognuno esprime un punto di vista, oppure, semplicemente, dona al lettore una riflessione, un ricordo. Ognuno si sofferma su un episodio della propria vita, ribadendo che spesso la felicità dura solo pochi attimi; tutti parlano d’amore.

Una coppia litiga in un supermercato, poi resta in silenzio in macchina, in un “misto di conformismo e autoinganno”. Due anziani si separano durante un torneo di carte, una giovane donna va a trovare un’anziana parente in una casa di riposo, e ascolta Edith Piaf, sempre Edith Piaf. Utilizzano linguaggi simili perché tutti appartengono allo stesso universo. Sono borghesi, chi più chi meno, benestanti, vivono in un Paese libero, possono scegliere sebbene spesso non riescano a farlo. È, la loro, una realtà europea moderna ed emancipata, leggendo si ritrova la Francia, una storia, un vissuto comune, ma ci sono tuttavia anche riflessioni più universali, che hanno a che fare con la solitudine e con il rispetto di sé. Con la comprensione dell’importanza delle piccole cose. Con le scelte di ogni giorno. Con il mentire, soprattutto. Con il bisogno di trovare un senso. Così nel racconto che a me sembra il più bello, il più intenso (ogni racconto prende il titolo dalla voce narrante, e questo si intitola Rémi Grobe), un uomo riflette sul sentimento amoroso e dice:

“Ho cominciato a provare qualcosa, voglio dire qualcosa di vero, in quel momento preciso. Scendendo dalla macchina, a Wandermines, sotto la pioggia. Non si parla abbastanza dell’influenza che hanno i luoghi sui sentimenti. Certe nostalgie tornano a galla senza preavviso. Gli individui cambiano natura, come nelle favole. Davanti alla chiesa semi-inghiottita dalla nebbia, agli edifici di mattoni rossi, al chiosco delle patatine fritte, ho visto il grande avvocato, la paladina delle vittime dell’amianto, una ragazzina insicura che rideva – adoro la sua risata – riconoscendo quelli che l’accoglievano. Nel bel mezzo di quella confraternita vestita a festa, che affrettava il passo verso il municipio per sfuggire all’acqua, mentre davo il braccio a Odile per aiutarla sul selciato sdrucciolevole, ho provato lo sconquasso del sentimento. Tra noi non c’erano mai state idiozie del genere”.

C’è chi riflette sulla tristezza, sul fatto che le cose siano fatte per svanire. Sulla solitudine, sul terrore di chi ha paura di non riuscire a nascondere agli altri fino a che punto si è soli. Poi c’è il passato, che ogni tanto riaffiora e ci commuove “A volte, quando ero bambino, regalavo a mia madre un sassolino o una castagna trovati per terra. Le cantavo anche delle canzoncine. Offerte insieme inutili e immortali.” C’è il sentimento della compassione per gli altri e per se stessi, in uno splendido racconto in cui tre uomini si giudicano e si deridono, ferendosi, ma che alla fine, completamente sbronzi, si ritrovano a pensare che basta un niente perché un uomo appaia vulnerabile. C’è chi è convinto che la felicità sia una scelta “Ho pensato, in quella casa qualcuno ha deciso che bisognava essere felici” oppure, invece, che sia un talento “Non puoi essere felice in amore se non hai un talento per la felicità”. Ci sono amori che durano per sempre, anche se non ci si incontra da 30 anni e poi ci si ritrova su un vagone della metro a Parigi – due vecchi che all’inizio neanche si riconoscono, legati non da amore, ma da ferocia, forse. “Ho guardato il nome della fermata, era Rennes-Saint-Placide. Ho detto, io scendo a Pasteur-Docteur-Roux. Ha scrollato le spalle come fosse l’ultima destinazione che uno potesse concepire. Si è alzato. Ha detto, vieni, Hélène. Vieni, Hélène. E ha teso la mano. Ho pensato, è pazzo. Ho pensato, siamo ancora vivi.”

C’è la voglia di ricordare e quella di dimenticare tutto il resto, ci sono l’incomunicabilità, il desiderio di comprendere, l’accettare o meno di poterlo fare. Si trovano, in Felici i felici, le mille accezioni del termine felicità, che è probabilmente il sentimento umano più personale, perché ognuno ha la propria idea di cosa sia. Tra i personaggi che animano il romanzo, qualcuno ci assomiglia, un altro può farci arrabbiare, perché così simile a chi ci fa soffrire. Di certo nessuno ci lascia indifferente.

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