A night at Giordano. Trascinanti le musiche dei Queen eseguite dall’ICO Suoni del Sud

by Claudio Botta

I Queen nella prima metà degli anni Settanta erano una delle tante band del variegato panorama britannico, piena di potenzialità – collocati nelle caselle che spaziavano dal glam all’hard rock, tuttavia apparivano ancora copie sbiadite rispetto ai riferimenti originari- ma non espresse al punto da emergere in modo evidente, nonostante la forte personalità e il talento dei suoi componenti: l’istrionico cantante Freddie Mercury, il chitarrista anomalo Brian May, il bassista John Deacon e il batterista Roger Taylor. L’album spartiacque fu A night at opera, in cui stufi di essere in un limbo senza vera identità abbondonarono ogni ritrosia e diedero forma ed espressione a ogni loro pulsione artistica, impiegando una gran quantità di strumenti (compresi contrabbasso, timpani, gong, arpa, ukelele, banjo), ricorrendo ad armonie vocali complesse, scrivendo ognuno almeno un brano, incidendo in sette differenti studi di registrazione nell’arco di quattro mesi: quando finalmente venne pubblicato nel novembre del 1975, l’impatto fu spiazzante ma avevano mostrato al mondo chi erano e chi volevano essere davvero, un modello da inseguire e idolatrare ma impossibile da imitare, dalle numerose contaminazioni di pianeti musicali lontanissimi che combinate in maniera innovativa e coraggiosa producono un risultato unico e irripetibile.

E la canzone più celebre dell’album, Bohemian Rapsody, il manifesto di uno stile nuovo in cui rock ed opera vanno a braccetto e si divertono tantissimo: cinque diverse parti musicali (introduzione corale a cappella, ballata che termina con un assolo di chitarra, un passaggio ispirato alla musica classica, una sezione hard rock, ancora ballata che si conclude con note intense al pianoforte e alla chitarra), un numero incredibile di voci sovraregistrate, una durata lunghissima -quasi sei minuti- per gli standard radiofonici dell’epoca. Il biglietto da visita di una rockstar, Mercury, in grado di incantare e sedurre il mondo (lo avrebbe fatto dieci anni dopo a Wembley, al Live Aid), di sfidare le convenzioni, di anticipare e creare tendenze (il video di lancio del singolo è stato uno dei primissimi ad essere realizzato a scopo promozionale nella storia della musica; le Adidas Samba bianche usate nei concerti ancora oggi uno dei modelli di sneakers più venduti del brand tedesco).

Questa lunghissima premessa era necessaria per spiegare quanto il materiale dei Queen sia una riserva preziosa anche per musicisti di estrazione ‘classica’ -per quanto sia frustrante e inutile cercare di inquadrare e limitare la musica con un aggettivo- e per le orchestre; e pericolosa, perché il confronto con l’originale scatta immediatamente e spesso impietosamente. L’ICO ‘Suoni del Sud’ ha raccolto la sfida, inserendo un intrigante ‘Queen Project’ nella terza stagione concertistica proposta al teatro Giordano di Foggia, appuntamento sold out con un numero di richieste sorprendente, e pubblico trasversale per età (molti studenti che evidentemente hanno scoperto la band inglese attraverso i racconti, i dischi e i cd dei loro genitori e il fortunato biopic che ha dato nuova linfa a un genere cinematografico ritenuto erroneamente di nicchia) ed estrazione sociale.

Guest star annunciata il pianista Giuseppe Andaloro, 42enne palermitano dalla brillante carriera internazionale da solista, un numero incredibile di concerti in teatri prestigiosi e riconoscimenti. Sul palco ha trovato un’eccellente e solida spalla nel direttore d’orchestra Marco Moresco, pronto a seguirlo e nell’assecondarlo nelle sue digressioni e a guidare anche con il corpo e la mimica i talenti dell’orchestra nata dodici anni fa “con l’obiettivo di creare opportunità musicali”, diventata un sogno realizzato per tanti e una solida realtà, per parafrasare un celebre claim di qualche anno fa. La scaletta killer ha fatto il resto: Inizio con The show must go on, l’ultimo capolavoro inciso da Mercury ormai stremato dall’Aids, diventato un grande successo dopo la sua morte ed eseguito dal vivo per la prima volta nel tributo organizzato a Wembley il 20 aprile 1992, con Elton John alla voce; poi We will rock you, trascinante e immortale inno, il pubblico già in piedi nei palchi e le mani battute a tempo; We are the Champions, dal 1977 colonna sonora di ogni successo sportivo, dal torneo aziendale alle Coppe del Mondo; Killer Queen, qualche attimo di tregua dopo la scarica di adrenalina iniziale. Don’t stop me now e il suo saliscendi emotivo; la dolcissima Love of my life, scritta da Freddie per Mary Austin (sua storica compagna prima di diventare il suo riferimento in tutto -ad eccezione della sfera sessuale-, in vita e dopo la morte, che ha vissuto a lungo nella villa a Kensington, Londra (il Garden Lodge) adesso in vendita per 30 milioni di sterline; Crazy little thing called love, uno dei loro primissimi grandi successi; I want to break free, che rimanda inevitabilmente negli over le immagini del video con loro ironicamente en travesti da improbabili e goffe casalinghe; I want it all, altro storico pezzo da stadio; Bicycle race. Il finale splendido con Somebody to love, e il pensiero stavolta è per la straordinaria performance di George Michael ancora nel concerto tributo per Freddie Mercury (la più bella, importante e sofferta della sua carriera, perché nel pubblico c’era il suo partner Anselmo Feleppa malato di Aids e che sarebbe morto pochi mesi dopo) e appunto Bohemian Rapsody, salutata al termine da un interminabile applauso.

Per quanto possa sembrare in chi non c’era la considerazione di un ubriaco, i brani senza la voce solista (comunque destinata ad essere appannata dal confronto con l’originale) hanno esaltato la bellezza e la potenza delle trame musicali, nonostante la mancanza di un pilastro così importante; e parallelamente si è scongiurato l’effetto karaoke, anche se è stato ed è comunque impossibile trattenere i cori sui ritornelli e passaggi più conosciuti. Bis di rito nel senso letterale del termine, nessun brano nuovo aggiunto (anche se un accenno al piano di Under Pressure -che vede insieme per la prima e unica volta due miti come Mercury e David Bowie aveva fatto sobbalzare dalle poltrone). Bravi, bravissimi tutti.

E due piccoli rimpianti. Il primo, si è trattato di un appuntamento unico, senza repliche. Almeno per ora, si spera. Il secondo, eventi del genere meriterebbero un’attenzione maggiore da parte dei media, perché attestano un fermento e una vitalità che appare lontanissima dalla narrazione standard della Foggia brutta sporca e cattiva. Ma esiste.

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