“Bob Marley: One Love” e la Reggae Consciousness, che da diario di viaggio di un ribelle si trasformò in un canto ecumenico

by Filippo Mucciarone

L’afflato poetico e carismatico musicale di Marley, al secolo Robert Nesta (a 42 anni dalla scomparsa precoce per uno strano melanoma della pelle scoperto per caso in seguito ad una visita per la cura dell’alluce destro in conseguenza di uno scontro di gioco durante una delle tante partitelle a calcio tra amici di staff a Kingston in Jamaica e/o contro squadre di formazioni dilettantistiche in giro per il mondo (o magari ad hide Park a Londra, città che lo vedrà impegnato in un lungo soggiorno per ritrovare la serenità e l’equilibrio perduti dopo l’attentato in Jamaica alla fine del 1976 che lo vedrà vivo per miracolo assieme alla giovane moglie Rita ed in cui darà vita assieme alla sua band storica dei Wailers ad uno degli album più gettonati della “hall of fame” sonora del ‘900 “Exodus”), sembra riecheggiare come un messaggio in bottiglia. Del resto per nulla sornionamente abbindolante, dal riattualizzarsi, verso un messaggio di fratellanza e speranza di emancipazione del popolo di origine africana (e non solo).

E proprio vieppiù quando, in concomitanza con l’uscita cinematografica mondiale (di questi giorni) del biopic “Bob Marley: One Love”, le sponde dei vari continenti nei vari punti cardinali che soggiacciono a varie latitudini e a svariati fattori economici e geopolitici interconnessi nel pianeta come da strane forme alchemiche da “leggi di gravitazione universale”, rimestano sotto mentite spoglie i gravosi fasti storici della sua epoca con i due grandi predominanti Blocchi da guerra fredda.   

In Francia a Parigi nel ’78 dove s’infortunò  durante il tour europeo Kaya in cui verrà registrato il secondo album Live (“Babylon by bus”) del catalogo ufficiale Island records uscito postumo quello precedente dagli esordi dirompenti sempre inglesi e londinesi del 1975 “Live at Lyceum”, l’effetto Marley sulla “ecosostenibilità internazionale” dello state of mind Reggae Consciousness e del suo messaggio universale (altresì capace di nascere nei bassifondi di Kingston per consolidarsi e diramarsi nel resto del mondo da una delle capitali mondiali degli stili della musica come appunto Londra), prenderà una svolta non solo come fattore di “importazione anti colonialista” e di rivendicazione di 400 anni di schiavitù come cantavano i precursori  Upsetter (cioè proprio i futuri di li a poco Wailers) nell’album di esordio “Catch a Fire”, ma anche in ambito più prettamente musicale, ciò darà adito ad una “diaspora intrinseca” con tutta la tradizione musicale precedente dell’isola e se si vuole della storia musicale contemporanea d’allora dell’arcipelago caraibico.

Tornando ai Wailers; formazione composta come le origini della leggenda narra da Peter Tosh (chitarrista organ piano e voce) insieme ai fratelli Aston e Charlie Barret (gli artefici delle tante armoniose ritmiche di bass line evocatrici al basso e batteria come alcune tracks foundation vedi “Stirt it up”  “Samll Axe” “Pass it on” o come “So Mach think to say”) ed a Bunny Livingstone (percussionista e corista) oltre allo stesso Marley (chitarra voce percussioni), di li a poco,  dovettero molto anche soprattutto a due figure chiave protagoniste quali innovatori e scopritori di talenti per ciò che attiene un “efferato  Sound primordiale dell’Isola”, ovvero Joe Higgs e Lee “Scratch” Perry.  Il primo artefice del trampolino di lancio dei Wailers grazie alla produzione e diffusione nelle radio chart locali cittadine ed all’interno della Jamaica della loro prima hit “Simmer Down” incisa come consuetudine dei tempi su 45 giri.

Il secondo, vero e proprio masterpiece e sorta di “stregone” eclettico dal carattere spiccatamente anti conformista impegnato a forgiare e poi anche mixare l’ascesa dei fasti ipnotici e magnetici che faranno da ancora al suono apicale di ricerca e sperimentazione del Reggae di Bob Marley end Wailers.

Difatto il paradigma ancestrale della tradizione musicale jamaicana ereditato da Marley, viene in tal modo sperimentato, e come “liofilizzato” nella sua pienezza diramante e sincopata, depurato nella sua semplicità da ogni orpello di desunta “complessità”. Ovvero il suo lodevole messaggio musicale, come mezzo di diffusione di intrattenimento e di tecnica canterina, prima ancora che come “parabola mistico emotiva” evocatrice del messaggio Rastafàry, diviene rimaneggiato e nuovamente arrangiato sul solco della tradizione più lontana da una cosa che fosse già vista o ascoltata.  

Tradizione che vede così riemergere invece, come purificata ulteriormente, affondando le sue radici più artefatte proprio negli stili ritmici storici caraibici più ostentati ed in voga per tutti i Sixteen, dal Mento al Calipso per poi approdare dal rock steady allo ska sino al Consciousness Roots dunque del Reggae di Marley.

Approdo naturale e “sprovincializzato” nel frattempo, grazie anche alla certosina scena di diffusione musicale culturale autoctona e di portata a conoscenza, operata dei famigerati Sound System. Spesso veri e propri mastodontici impianti sonori (auto costruiti) itineranti (o inna the yards – ovvero nei cortili in pianta stabile), caratterizzati con predominanti propensioni costruttive alle sonorità di bass line di elevata portata d’ampiezza e potenza. Vera e propria avanguardia musicale che sarà poi adottata da moltissimi altri produttori ed artisti sin fino agli altri ambiti musicali (oltremodo moderni se si vuole) dei nostri tempi nelle svariate sfaccettature di propensione di generi.

-Africa Unite.

“Quanto sarebbe bello e quanto sarebbe piacevole Davanti a Dio e all’uomo. Per vedere l’unificazione di tutti i Rastaman, sì Come è già stato detto, che sia fatto .Ti dico chi siamo sotto il sole Noi siamo i figli dei Rastaman  Noi siamo i figli degli Iyaman”. Questa parte del brano Africa Unite presente nell’album Survival del 1979, pietra miliare della produzione più intensa dell’ultimo periodo fervidamente maturo ed ispirato di Marley, a cui seguirà un’altra pietra miliare ovvero l’album Uprising, prima della sua prematura scomparsa del 1981, rappresenta in realtà la sintesi e l’istantanea tradotta in musica della notevole complessità per portata e temi trattati della vicenda dell’esile canterino di umili origini (dal villaggio montuoso di Nine Mile presso Sant’Ann), che come il suo mentore e punto di riferimento spirituale Tafari Maconnen futuro imperatore Hailè Selassiè (nato in un villaggio di montagna a quaranta chilometri da Harar in Etiopia il 23 luglio del 1892 periodo in cui stava per concludersi una delle più grandi tragedie a seguito di carestie ed epidemie causate dalla Grande Fame in Etiopia), sognava la redenzione del suo popolo ed il ritorno in Africa alla terra Promessa. Un periodo questo in cui darà al contempo a lui stesso modo, oltre che di promuovere con concerti il suo Reggae più in voga del momento in ogni latitudine del globo, di poter apportare con tangibile interesse ed attenzione, un suo messaggio di pace ed unità nel continente africano (vedi i concerti in Zimbabwe ed in Gabon dopo che verso la fine del ’78 fece visita e sostò proprio in Etiopia visitando Shashamane, insediamento situato su 500 acri di terra donati dal Negus Selassiè ai rastafariani che scelsero di rimpatriare in Etiopia). Secondo anche la scia di un altro movimento che aveva avuto un forte impatto sulle popolazioni di colore di tutto il mondo. Cioè L’UNIA (Universal Negro Improvement Association) fondata dal giamaicano Marcus Mosiah Garvey poi espatriato negli Stati Uniti (e ai cui principi ci si riferì per la canonizzazione di Martin Luther King). Il motto di tale dottrina che diventava la bandiera della gente di colore suonava pressochè così infatti, “L’Africa agli africani – in patria e all’estero).

-L’omaggio di Ernesto Assante al Re del Reggae (cantore del genere musicale popolare per eccellenza a livello planetario).

Come in un flow di inaspettata ed esacerbante portata, il grande critico musicale Ernesto Assante, autore di testi sulla musica e la sua storia, nonché blogger oltre che autore di notevoli articoli e rubriche su Repubblica sin dal 1979, ci lasciava solo pochi giorni fa a 66 anni. Riportiamo quindi una sua chicca ed un suo omaggio (apparso sul blog di musica contemporanea ReWriters il 26 Maggio scorso del 2023) come nel suo stile scanzonato ma puntigliosamente fedele ad un evento che diede dunque il la, all’ascesa e al successo a livello mondiale della star così chiamata non certo per usare un eufemismo “Del terzo mondo”. Live at Lyceum a Londra nel 1975, Dove tutto ebbe inizio. In un cortile di Second Street a Trencktown (Rock). Sobborgo alla periferia di Kingston…

… “A metà del 1975 la stragrande maggioranza dei giovani inglesi professava un’unica fede musicale: quella nel progressive rock. Genesis, Yes e affini: le lunghe suite strumentali, il patto di ferro tra il rock e la musica classica, temi e parole che affondavano le radici nei miti celtici.

Era questa la nuova veste scelta dal rock dopo la grazia degli anni ’60 e la caduta della prima parte del decennio. Un’astronave elettrica e barocca sulla quale in pochissimi non erano saliti.

-Un sacerdote venuto dalla Giamaica

Ma quel presente fatto di fughe strumentali e oniriche fu sostituito in sole due notti da un altro sogno collettivo e da un altro viaggio. Da un rito magico, officiato da un giovane sacerdote che proveniva da Trenchtown, Giamaica, l’ex periferia del Regno. Perché il 17 e il 18 luglio del 1975 il canto di Bob Marley prese il rock, gli tolse ogni certezza e lo condusse su altre strade.

In quel pomeriggio di luglio una sola cosa era sicura: che non si era mai vista gente così strana nel cuore di Londra, all’esterno del Lyceum Ballroom uno dei teatri più belli della capitale inglese. Tremila giamaicani perfettamente mescolati ai ragazzi inglesi, arrivati lì per ascoltare quello che consideravano il loro padre spirituale.

Quasi nessuno ha il biglietto, ma tutti vogliono assistere. La polizia si oppone ma nulla da fare: due porte vengono divelte e la folla può entrare liberamente. Assisterà a un concerto memorabile, registrato con lo studio mobile dei Rolling Stones. Bob Marley è al suo zenit.

Ha appena pubblicato Natty Dread, il disco che lo consacra come star internazionale. L’atmosfera di quella sera è inspiegabile. Dennis Morris, fotografo di scena, la sintetizzerà cosi: “quella sera tutti i presenti hanno deciso che sarebbero diventati dei rasta”.

Lively Up Yoursel e No Woman No Cry trasportano il pubblico e la musica popolare in altri territori: esotici, incontaminati. Il rock riscopre il sacro, diventa l’accesso a un libero paradiso nel cuore dell’Occidente che troverà proprio in Inghilterra i suoi discepoli: senza l’impatto di quel concerto i Clash, i Police e decine di altri gruppi non sarebbero semplicemente esistiti.

-La magia di Bob Marley

E non si trattò solo di portare il verbo del reggae all’Occidente. Perché in quei due concerti Bob Marley sembra quasi lasciare in seconda fila la propria storia e le proprie origini. Riesce, ed è qui la magia, a ricoprire le sue canzoni di una nuova patina: che da diario di viaggio di un ribelle si trasformano in un canto ecumenico.

E lo fa proprio in quelle due notti di Londra. Da un lato si affida all’elettricità, contamina tutto il suono della sua band con l’insegnamento del rock degli ultimi vent’anni. E dall’altro mette in scena un infinito call & response con le I-Threes, le sue coriste, secondo i dettami del soul.

E non si tratta di un’addizione, ma di pura alchimia: Bob Marley riesce ad estrarre dai generi musicali che attraversa tutti gli elementi che suonano messianici. Li assorbe e li immette in un tessuto musicale del tutto nuovo.

Il rock prende come proprio oggetto il futuro dell’uomo, ristabilisce il suo essere il mezzo migliore per arrivare alla Terra Promessa. Senza ingenuità, dogmi o canoni. La Redemption Music, veicolo di liberazione, inizia a Londra in quel giorno di luglio.

L’album Live! che qui vi ripropongo renderà quelle due notti di musica eterne”.

Marley & The Wailers

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