Bologna, via San Vitale 51. L’andata e ritorno del viaggio in collina e dell’ellisse di Pupi Avati, la conversazione brillante e struggente per Musica Civica

by Enrico Ciccarelli

Fra le molte benemerenze accumulate da Lucio Dalla nella sua troppo breve vita ce n’è anche una ignota ai più: essersi presentato in veste di clarinettista alla Doctor Dixie Jazz Band nella Bologna dei primi anni Sessanta del secolo scorso, e avere, con il suo indisciplinato e sommo estro, indotto il precedente orchestrale titolare del ruolo ad abbandonare il suo sogno di musicista, sopraffatto da quel mistero (e quell’ingiustizia) del talento che è al centro dello splendido «Amadeus» di Milos Forman.

Perché è una benemerenza? Perché quel musicista mancato, quell’emulo inconsapevole di Antonio Salieri, il presunto avvelenatore di Mozart, si chiamava Giuseppe Avati, per gli amici Pupi, e a trent’anni, dopo avere lasciato la band, lasciò anche un non disprezzabile lavoro di agente di commercio nel settore dei surgelati, diventando uno dei maggiori registi italiani. Cantore della provincia, soprattutto emiliana e felsinea, inventore del «gotico padano», irrequieto e capace di periodiche incursioni nei «generi», Avati è una persona anziana con la maliziosa lucidità di un ragazzino e la capactà autoironica di un quarantenne.

Ne ha dato prova come prestigiosissimo protagonista, domenica 8 ottobre a Foggia  del secondo appuntamento di «Musica Civica», sul palco del Teatro «Giordano». L’intervista gradevole, misurata e competente che gli ha fatto Dino De Palma è stata scoppiettante di battute e ricordi, evocando con la stessa vivezza delle sue pellicole il piccolo mondo antico di una Bologna dove non era proibito sognare, di una ragazza restata al suo fianco fino ad oggi per quasi sessant’anni, dei tanti silenzi opposti inizialmente alle sue ambizioni filmiche (l’unico a rispondere agli «amici del Bar Margherita» che volevano cimentarsi nel cinema fu il grandissimo Ennio Flaiano: ma la lettera di risposta si limitava a un perentorio «Non scrivetemi più».

E poi, dopo tanti sorrisi gioviali e risate, con la stessa impressionante fluidità dei suoi film (ricordate quel capolavoro che è «Regalo di Natale» quando di colpo la faccia da pokerista principiante e sfigato di Carlo Delle Piane prende la fisionomia luciferina del professionista venuto a spennare Diego Abatantuono?) Avati si alza in piedi e viene in proscenio a raccontare l’ellisse della vita e dei suoi quattro quarti, con la metafora molto emiliana della collina.

Pupi Avati

Dall’infanzia alla maturità si snoda l’ascesa verso la sommità, la scalata a una cima dove pensiamo di trovare la nostra felicità, la soddisfazione delle nostre brame, il coronamento dei nostri desideri. E quando ci arriviamo, e l’ellisse giunge al suo terzo quarto, comprendiamo che quel che abbiamo alle spalle è ormai molto di più di quello a cui andiamo incontro. Ci assale allora la nostalgia della giovinezza, di ciò che è stato o non è stato, ma non sarà mai più (il nevermore di Edgar Allan Poe). Tuttavia nell’ultimo quarto ci attende una prova ancora più decisiva: quella della vecchiaia, che Avati identifica in modo fulminante nella scoperta e nell’accettazione della propria vulnerabilità. Una condizione che è una preziosa chiave per l’empatia, la solidarietà, la pace. In cui la nostalgia non ha più come oggetto la giovinezza, ma l’infanzia, a segnare la fatale andata e ritorno del ciclo della vita. Per cui l’ottantacinquenne Avati, il musicista incompiuto, il cineasta che ha trovato nel grande schermo la sua calligrafia, il pluripremiato e amatissimo regista ci dice che l’unica cosa che vorrebbe è ritrovarsi «a Bologna, in via San Vitale 51, dive mio padre e madre mi aspettano per cena». Gli applausi sono scroscianti, probabilmente anche per nascondere qualche occhio lucido. Il giovanissimo vegliardo ne sembra molto contento.

Dopo questa comunicazione mozzafiato, non era facile apprezzare la seconda parte, con il Concerto italiano dell’Accademia dell’Annunciata diretta da Riccardo Domi, con lo straordinario violoncellista Mario Brunello. Sul palco, con gli strumenti a corda, un clavicembalo, la cui voce argentina e lieve sta al pianoforte come una pioggerellina di marzo sta a un’impetuosa burrasca. Il timbro e il registro adatti alla musica barocca.

Partenza con il celeberrimo Concerto Brandeburghese numero 3 di Johann Sebastian Bach, seguito ancora da Bach e Vivaldi, da un altro Bach (Carl Philipp Emanuel, quinto figlio del più famoso Johann), un brano del sommo violoncellista statunitense Steuart Picombe, per chiudere in bellezza con il maestoso Concerto Italiano, ancora di Bach senior. Il violoncello piccolo di Brunello ha incantato per virtuosismo e misura, in un concerto non sempre facile a godersi, ma sempre interessante nella proposta. Musica Civica non si smentisce.

Nel video l’intervista che Pupi Avati ci ha gentilmente concesso prima della performance.

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