Ci ritorni in mente, Lucio Battisti

by Claudio Botta

Avrebbe compiuto 80 anni il 5 marzo Lucio Battisti, l’artista che ha rivoluzionato la musica italiana, che ha determinato una cesura epocale tra prima e dopo di lui paragonabile all’avvento dei Beatles in Inghilterra e di Elvis Presley in America e nel mondo. Morto giovane, a 55 anni, in una stanza dell’ospedale San Paolo di Milano protetto dall’affetto dei suoi familiari più stretti e dalla riservatezza con cui ha vissuto gran parte della vita, ma non prima di aver inciso 17 album di pura bellezza, avanguardia, sperimentazione, ricerca che sono entrati nella storia del pop nella sua accezione più ampia e profonda, e aver collezionato una irripetibile serie di successi che resistono e resisteranno allo scorrere del tempo, per sé e per altri.

Nato a Poggio Bustone, duemila anime in provincia di Rieti, gli inizi come chitarrista, un talento innato rodato da ore e ore quotidiane di studio e feroce applicazione, la consapevolezza – pur autodidatta – delle proprie qualità e la determinazione nella ricerca del successo. Gli incontri con Roby Matano, leader dei Campioni, con trasferimento a Milano e provini su provini alla ricerca di un contratto; e quello fondamentale con la talent scout della Ricordi Christine Leroux, che ne intuì le potenzialità e gli fissò un appuntamento con il paroliere Giulio Rapetti, in arte Mogol. L’inizio di un sodalizio leggendario, un’alchimia perfetta tra musiche che risentivano della marcata ispirazione di artisti del calibro di Otis Redding, Ray Charles, del rhythm and blues, del soul afroamericano e di tutto quanto arrivava da oltre Manica, ma venivano assorbite e riplasmate in modo originale e straordinariamente innovativo, e testi particolarmente ispirati che nascevano dopo l’ascolto di quegli accordi che destrutturavano completamente la classica forma canzone italiana, stravolgendola e proiettandola in un futuro che era già presente. I primi, grandissimi successi, affidati ad altri (‘Per una lira’ I Ribelli, ‘29 settembre’ l’Equipe 84, ‘Vendo casa’ i Dik Dik), ma con la consapevolezza e certezza che i provini incisi con la propria voce così lontana dai canoni del bel canto italiano – alla Claudio Villa, per intenderci – fossero migliori, più intensi ed emozionanti. Il 1969 anno della prima, significativa svolta, con la pubblicazione del primo album, intitolato semplicemente Lucio Battisti, raccolta dei singoli usciti in precedenza (come ‘Un’avventura’ che lo impose all’attenzione generale) arricchita da capolavori ancora oggi patrimonio e colonna sonora di attimi ed emozioni vissute da generazioni intere (da ‘Acqua azzurra, acqua chiara’ a ‘Mi ritorni in mente’, da ‘Non è Francesca’ a ‘Balla Linda’). E la Numero Uno, la casa discografica indipendente fondata dalla coppia, diventa immediatamente la factory italiana, serbatoio di creatività e novità inesauribile e una calamita irresistibile per giovani talenti, modello ed esempio studiato, imitato, ammirato, invidiato.

Canzoni che entrano nel cuore e nell’anima, per parafrasare un altro suo storico brano, semplici solo in apparenza, perché arrangiamenti, sonorità, produzione sono sempre ricercati e calibrati, curatissimi in ogni dettaglio, e anche per questo Battisti non ha mai amato le tournée, nella consapevolezza dell’impossibilità di raggiungere dal vivo la perfezione dello studio di registrazione (celebri due suoi rifiuti: una proposta dell’amico Lucio Dalla per due concerti insieme allo stadio Olimpico di Roma e a San Siro a Milano, e Dalla poi la girò a Francesco De Gregori e nacque l’avventura di Banana Republic; e un invito ad esibirsi al teatro Regio di Torino formulato direttamente dall’avvocato Gianni Agnelli in persona, pronto a staccare un assegno da un miliardo di lire, ma ‘rimbalzato’ al punto da non riuscire nemmeno a parlare con lui). Un’ascesa irresistibile e inarrestabile, le classifiche di vendita dominate per un decennio, nonostante la progressiva scomparsa dalla scena mediatica e dalle trasmissioni televisive, la mancata promozione dei vari album, la scelta di comunicare esclusivamente con la sua musica, sempre avanti rispetto al panorama circostante. E nonostante le polemiche per i testi disimpegnati e così personali, lontani dalla militanza politica imperante e dall’impegno richiesto ai cantautori come conditio sine qua non per avere credibilità e status; o peggio, in odore di fascismo (le assurde polemiche sui “boschi di braccia tese” e sulla copertina di ‘Il mio canto libero’), anche se nel covo delle Brigate Rosse in via Gradoli, usato per il sequestro di Aldo Moro, venne ritrovata l’intera discografia di Battisti.

Il sodalizio con Mogol termina con l’album ‘Una giornata uggiosa’, nel 1980, ottimamente prodotto a Londra da Geoff Wesley, come il precedente ‘Una donna per amico’. Una rottura determinata da ragioni economiche (una diversa ripartizione dei diritti d’autore, richiesta dal paroliere), visioni differenti (Battisti è sempre stato contrarissimo all’uso e alla vendita delle loro canzoni per spot pubblicitari), una stanchezza di fondo inevitabile dopo avere insieme esplorato qualsiasi possibile sentiero, emotivo e sonoro, e prodotto capolavori su capolavori. La canzone che chiude il disco è ‘Con il nastro rosa’, e il saluto è affidato alle celebri strofe “chissà, chissà chi sei/chissà che sarai/chissà che sarà di noi/lo scopriremo solo vivendo”.

Il futuro per Lucio inizia con ‘E già’, sempre registrato a Londra, prodotto da Greg Walsh, sonorità elettroniche in linea con la new wave e il synth pop imperanti all’alba degli anni Ottanta, testi firmati dalla moglie Grazia Letizia Veronese (con l’acronimo Velezia). Un disco di transizione ma pienamente immerso nell’epoca (il 1982), una scommessa azzardata ma sentita come doverosa per un artista incapace di adagiarsi, e alla continua ricerca di nuovi stimoli. Seguito da quattro anni di silenzio, prima dell’uscita di ‘Don Giovanni’, nuova frontiera di un’avanguardia che in Italia non si era mai spinta fino a quel punto, per le musiche ma soprattutto per i testi del poeta ermetico Pasquale Panella, agli antipodi con Mogol e improntati sulla distruzione e successiva rielaborazione di qualunque convenzione e regola di scrittura, criptici, infarciti di neologismi, giochi di parole, citazioni evocative e suggestive.

E’ l’inizio di una nuova collaborazione, stavolta a distanza – le parole arrivavano via fax, la musica elettropop e techno composta dopo, fredda ma arricchita comunque da melodie armoniose e sofisticate – che ha prodotto i cinque ‘dischi bianchi’ (dal colore dominante delle copertine con piccoli disegni al centro), quaranta canzoni mai abbastanza valorizzate come meriterebbero, nelle quali Battisti ha completamente azzerato il suo passato, la sua enorme popolarità, mantenendo soltanto la voce dal timbro inconfondibile come elemento di continuità. La canzone ‘Don Giovanni’, in particolare, è il manifesto di Battisti: “Che ozio nella tournée/di mai più tornare/Nell’intronata routine/del cantar leggero/l’amore sul serio/E scrivi/che non esisto quaggiù/che sono/l’inganno/Sinceramente non tuo”. Le regole dello star system rifiutate in toto, il buen retiro nella Brianza “velenosa” dopo gli anni in Inghilterra, la passione per il windsurf e i contatti sempre più sporadici con il mondo esterno, il silenzio rotto soltanto dall’uscita ogni due anni di un nuovo lavoro, fino ad ‘Hegel’ nel 1994. E quando è arrivata la nota di agenzia con la notizia della sua morte, il 9 settembre del 1998, Battisti non c’era più da tempo, come personaggio pubblico. Ma era ovunque e in chiunque, e lì sarebbe rimasto. Per sempre.

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