Diario dagli States del maestro Mastromatteo: “La deep America mi regala libertà”

by redazione

“La musica non è mai abbastanza, se non è donata, nulla è mai abbastanza se non è dato, se non è liberato da se stessi. È un percorso molto arduo, ma regala gioie immense, gli occhi dei miei studenti americani sono per me una gioia immensa”.

È felice il maestro Francesco Mastromatteo, che nei prossimi giorni sarà Edwards Visiting Professor Scholar alla Marshall University in West Virginia negli Stati Uniti. Ha visto suonare i suoi primi due studenti Tiffany e Daniel, selezionati in tutto il Texas tra i migliori talenti del Paese.

“Hanno cominciato quando avevano quasi 5 anni, mi sono emozionato nel vederli suonare, ricordo quando vennero con la loro sediolina nella mia stanza e me l’hanno occupata con la loro vita. Io qui sono pienamente violoncellista come docente, oggi Tiffany e Daniel sono primo e secondo violoncello dell’orchestra d’archi. Negli Stati Uniti quando si fa un’orchestra, si comincia con un’orchestra d’archi, razionalizzando l’offerta. Ognuno si concentra: un’orchestra d’archi, una di fiati, una di ottoni. Tutte hanno il pianoforte, non è come in Italia che si mette dentro quel che si ha. Ma sappiamo che la deriva italiana cominciò con le idee mediocri partite dall’allora Ministro Berlinguer e adesso ne subiamo le conseguenze”, racconta il maestro a bonculture dagli States.

Il violoncellista e grande divulgatore ha tenuto il suo primo concerto del suo ottobre statunitense alla St. Andrews Presbyterian Church. Sulla strada Intestate 635, da Austin a Dallas, che lui ha percorso per tanti anni, quando lavorava a Dallas e continuava a formarsi ad Austin e ogni due settimane andava a gestire la sua stagione di concerti, con dei vocali WhatsApp il maestro ci ha raccontato, in forma diaristica, il suo viaggio americano. Nella sua voce la passione per gli spazi del nuovo mondo e la forte conoscenza intellettuale ed umana di una terra piena di antinomie.

“Sono degli autentici percorsi di vita i miei viaggi negli Stati Uniti, personali e non solo- spiega- Mi danno uno spaccato della realtà che attraversiamo, socialmente ed emotivamente. Arrivare negli Stati Uniti è essere, ancora oggi, nonostante lo sviluppo della cultura asiatica e delle economie aggressive di India e Brasile, dentro uno spaccato del mondo, perché entri immediatamente in contatto con un vastissimo raggio di tradizioni culturali. È una vita estremamente intensa e dunque sembra di avere un punto di vista privilegiato sulle dinamiche del reale. L’America trumpiana che dovrebbe essere ostile, in realtà così ostile non lo è. Soffre delle stesse contraddizioni di cui soffriva nell’età di Obama e durante gli anni di Bush, che io ho vissuto da studente. La mia scuola era finanziata dalla moglie di G.W. Bush tant’è che all’ultimo concerto io avrei dovuto suonare proprio per lui dopo la messa delle 9 a cui lui presenziava nella chiesa metodista. Le contraddizioni sono sempre le stesse e sembra impossibile risolverle. Tragiche da un lato e feconde e ricche di stimoli dall’altro, per cui gli Stati Uniti sono la terra del tutto e del contrario di tutto, degli opposti che incontrano e si abbracciano”.

“Nell’età di Trump è stato il viaggio più semplice nei controlli agli aeroporti, tranquillissimo e eppure sono un immigrato anch’io. Ci sono state volte che non è stato così anche negli anni obamiani. Oggi è tutto fluido, sono stati efficientissimi. Francamente sembra assurdo che mentre stanno costruendo il muro ai confini con il Messico è addirittura più semplice entrare negli Stati Uniti. Anche per chi non fosse del tutto regolare. Sembra un’assurdità, ma è così, si vedono tante minoranze etniche lavorare nelle città. In Texas la presenza messicana è talmente vasta che non si può parlare di minoranze, sarebbe ridicolo.

Ad Austin la Samsung ha uno stabilimento con 10mila dipendenti coreani, che non hanno mai imparato a parlare inglese. I miei studenti di Austin di violoncello infatti sono quasi tutti di origini asiatiche. Filippini, coreani, cinesi, tutti di prima generazione. La prima sensazione è che in una terra che si dovrebbe chiudere, la chiusura è relativa e ha un doppio aspetto. Si ha il timore che tutto sia dominato dal fattore economico: è cheap labour, lavoro a basso costo che si fa entrare per abbattere i costi del mercato. Gli States sono il terreno in cui sempre più i diritti civili stanno soppiantando le lotte per i diritti sociali e alla qualità del lavoro. Sono due ambiti che dovrebbero procedere a braccetto, ma sono due ambiti che per una strategia comunicativa tendono ad escludersi invece di procedere insieme in modo parallelo”.

Alla St. Andrews Presbyterian Church, Mastromatteo ha suonato un concerto per violoncello solo, eseguendo il suo amatissimo Bach, Cadenza, di Stefano Taglietti, fra i più riconosciuti e affermati, anche a livello internazionale, compositori della generazione di mezzo, Suite per violoncello solo di Gaspar Cassadó, un pezzo catalano dove il maestro ha ritrovato le suggestioni dei colori, delle architetture di Gaudì vissute in un recente viaggio a Barcellona e la Lamentatio di Giovanni Sollima.

“La cosa bella negli Stati Uniti è che immediatamente sento la profonda esperienza di libertà. Gli States mi hanno regalato la libertà, perciò io sarò sempre grato a questa terra piena di contraddizioni tra ricchi e poveri, bianchi e neri, tra persone socialmente considerate e altre che non hanno nulla. È una democrazia che ha enormi ferite, ma è vero che qui si sperimenta la libertà.  Appena arrivo qui sento che il mio suono diventa più ampio, capace di inglobare le diversità, è un regalo che mi fanno le persone americane e quelle che vengono ai concerti. Dico sempre: Americans are better than America. Gli americani sono migliori dell’idea di America che abbiano, ti vengono incontro con una ingenuità tale che facilmente diventano manipolate e piegate a vari interessi, ma sono essenzialmente aperte, anche i più conservatori, sono curiosi della vita. Sono desiderosi di scoprire e di scoprirsi e questo lo vivo nell’atmosfera. E questo accade in Texas, non a New York o a Boston o a Los Angeles, nelle realtà metropolitane che sono la testa dello sviluppo mondiale, io lo vivo nella deep America. Una libertà che significa un continuo rapporto col pubblico: mancano le rigorose etichette dell’applauso, da noi c’è una distanza tra il concertista e il pubblico, figlia di una tradizione e di una storia, di un accademismo, che ci rende depositari di una storia. Negli Stati Uniti tutto questo è figlio di un immediato contatto umano, per cui dopo il concerto dopo la Lamentatio di Sollima che è un pezzo in cui si sperimenta il lamento anche vocale del violoncellista, con una esperienza catartica, una signora mi è venuta a dire che aveva perso il figlio in giovane età e che durante il concerto aveva vissuto la liberazione dal dolore.  Suo figlio era un uomo capace di donare e anche lei avrebbe continuato a donare. Mi parlava con una gioia, con una pace dell’anima, vera, sostanziale. È venuta a parlare al musicista, così, semplicemente, ho trascorso l’intervallo chiacchierano con il pubblico, commentando la prima parte del concerto. La mia concentrazione è stata il dialogo con chi era venuto a condividere l’esperienza. Questo è il tesoro dell’America, vive la musica come una esperienza non mediata, in cui ogni barriera viene dissolta, figlia di questa ingenuità del pubblico, quasi una verginità di rapporto con tutto. Ecco perché bisogna essere attenti ai messaggi che vengono mediati, ecco perché la società americana può essere sbalzata da un luogo all’altro, da un’estremità all’altra. Mary, una mia cara amica di 82 anni, la persona più angelica che si potrebbe immaginare, mi ha detto che il problema negli Stati Uniti non sono le troppe armi, ma che ce ne siano troppo poche. Quando le ho detto che io invece la penso diversamente, lei, pur indirizzata e terrorizzata da non si sa che cosa, si mette in discussione con un entusiasmo che hanno i nostri diciottenni. Questa è l’America”.

(testo raccolto da Antonella Soccio)

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