Dopo 20 anni i Placebo di Black Market Music conservano il loro stato d’animo acido che fa uscire in piena notte

by Gianfranco Maselli

Nei giorni del suo ventesimo compleanno è importante capire perché Black Market Music resta un lavoro discografico così attuale, un prodotto che può fregiarsi del merito d’aver influenzato il panorama musicale dei primi anni duemila, in modo plurale.

Se nel 2000 Brian Molko affermava come alla base di questo disco ci fosse l’idea di dipendenza, sia essa da persone, emozioni, sostanze e/o situazioni, oggi, dopo 20 anni, i fan possono aggiungere che Black Market Music non è riuscito a farli guarire dalla loro “Placebo-addiction”, una dipendenza che, piuttosto, per gli ascoltatori si è aggravata da questo punto in poi.

Anche a distanza di anni i Placebo di Black Market Music restano la droga per cui usciresti di casa e ti metteresti in macchina in piena notte pur di non rimanere senza, lo stato d’animo che vorresti afferrare e non lasciare andare mai più, la persona capace di farti volare in alto quanto di gettarti in basso, in un mare acido quanto il basso fuzzato di Stefan Olsdal che da “Taste in man” alla settimana traccia del disco, “Slave to Wadge”, non si ferma neanche per riprendere fiato.

La baseline sporca ed ossessiva, che si dipana al meglio grazie alla complicità delle chitarre squisitamente punk, fanno della prima metà del disco una corsa sfrenata senza esitazione e ritardi che, dopo il posato edonismo di “Without You I’m Nothing”, deve certamente aver sconvolto gli affezionati, abituati ad album che, pur strizzando l’occhio ai suoni acidi, si liberavano della gravità per fluttuare più di una volta per aria.

La prima metà dell’album si afferma invece come uno sfrenato attualissimo esperimento post punk destinato a diventare un paradigma per chi, nei primi anni del 21° secolo, ricordava nostalgicamente la musica dark degli anni 80 cercando, senza darsi pace, di riportarla in auge a qualunque costo.

I Placebo di Black Market Music saranno un porto sicuro, qualche anno dopo, per gli Interpol e gli Editors, band che seguiranno Molko e soci ad occhi chiusi su quella via di suoni già battuta che porterà alla realizzazione di dischi come Turn on The Bright Light per i primi e The Black Room per i secondi, lavori guidati da uno sguardo più odierno e post punk sulla new wave degli anni ’80.

Gli Interpol e gli Editors, tuttavia, non solo i soli a percorrere una strada che, in realtà, da un certo punto in poi si biforca in modo cruciale. Dietro di loro, pronti a seguire la direzione più emozionale del bivio ci sono artisti come i My Chemical Romance, I Thirty Second to Mars, i Cigarettes After Sex e tanti che troveranno nell’inedito intimismo della seconda metà del disco il proprio credo.

Da Commercial for Levi in poi, infatti, il mood duro di Black Market Music si accascia per lasciare spazio ad un sound più narcolettico, ad un triste down sonoro che, fatta eccezione per “Hemoglobin”, dà voce perfettamente alla curva discendente che segue all’accelerazione estrema, una catabasi diabolica guidata dall’ipnotica e fredda voce di Molko.

Il climax decade verso il basso a velocità sorprendentemente, lasciandoci su di giri e divisi fra la voglia di tornare indietro e “rifarci” riascoltando i brani precedenti e il desiderio di abbandonarci e lasciarci sciogliere dal pianoforte di “Peeping Tom”, un brano spaventato, disarmato, nudo di fronte alla discesa che segue all’apice, terrificante tanto quanto lo è stata la salita ma non altrettanto evocativa.

Black Market Music pur avendo segnato gli albori del 21° Secolo, sembra infatti essere invecchiato in modo frammentato, consacrando la prima mezz’ora e gettando quasi nel dimenticatoio i brani della seconda parte del disco che, tuttavia, contengono germi di introspezione e sensibilità che sbocceranno successivamente, in dischi “Sleeping with Ghosts” e in altre band destinate a lasciare impronte importanti in generi come lo Slow-core, l’Emo più melodico e passionale e il dream pop che faranno fortuna nel corso degli anni 2000.

Sarebbe stato decisamente incoerente scrivere una di quelle recensioni a lieto fine che celebra il ventennale di un disco che, in realtà, rappresenta nei suoi lyrics un affresco sociale in cui c’è poco da festeggiare.

Black Market Music non è stata solo sperimentazione ma anche una fotografia generazionale unica, un quadro a tinte fosche i cui testi trasudano di tutta la stupefacenza e la tensione che tanti adolescenti del 21° secolo portano con sè.

Nel suo insoddisfacente e addictive sali-scendi, questo disco racconta perfettamente l’umore altalenante di una gioventù che, alle porte del nuovo millennio, comincia a sentire sulle spalle il peso di una società sempre più performativa. L’unico modo per dimenticarsene è soffrire cercando conforto nella musica, è abbracciare il dolore come soltanto la New Wave di Joy Division e Cure avevano insegnato a fare negli anni ’80.

Per molti, davanti alle insicurezze di una nuova era senza alcun punto fermo, l’unica reazione possibile diventa legarsi ad una delle tante dipendenze che ci attendono dietro l’angolo, come fa quel giovane frontman che , nei primi 2000, cerca di scalare i propri muri brancolando in quel buio che si sarebbe dissipato soltanto 10 anni dopo ma, nel frattempo, scrive canzoni destinate a dar voce ad una drammatica ed oscura battaglia generazionale.

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