Epilogue, i Daft Punk si separano. Zero parole, solo due robot in un deserto

by Sara Valentino

L’orologio segna le 16:00 di un tranquillo lunedì pomeriggio di febbraio, ma la normalità non è destinata a durare a lungo perché da lì a pochi secondi dilaga sui social la notizia musicale che avrebbe fatto il giro del mondo: i Daft Punk pubblicano sul loro canale Youtube un video di otto minuti Epilogue (estratto dal loro film Electroma del 2006, ndr) che annuncia la loro separazione dopo ventotto anni di carriera.

Si, proprio così, lo hanno comunicato a modo loro: zero parole, due robot con i consueti caschi e giubbotti di pelle che si incontrano per l’ultima volta in un deserto, uno si scopre avere un timer dietro le spalle che viene azionato dal compagno che si allontana. E mentre il timer scorre all’indietro l’unico suono percepibile è il ticchettio del tempo che passa e termina con l’esplosione di uno dei componenti del duo elettronico francese: un rumore sordo pervade il deserto, lo stesso che invade la mente di chi incredulo sta vedendo quelle immagini. Un epitaffio con due mani di robot vicine «Daft Punk, 1993 – 2021», l’alba di un nuovo giorno e le note di Touch in sottofondo.

Darlin’, questo era il nome della band dal successo fallimentare in cui sono cresciuti Thomas Bangalter e Guy-Manuel de Homem-Christo insieme a un terzo componente, il compagno di scuola Laurent Brancowitz (fondatore dei Phoenix, ndr) nel lontano 1992; un gruppo rock-new wave-punk-noise che dopo l’uscita del primo singolo autoprodotto (Cindy, so loud) fu stroncato dalla rivista britannica Melody Maker che lo definì con disprezzo «a daft punky trash» (punk ottuso), da cui loro poi prenderanno il nome. Nonostante l’insuccesso Thomas e Guy-Manuel rimasero uniti e, in quegli anni ’90 in cui i giovani si vestivano con camicie di flanella a quadri, si facevano crescere i capelli e si rifugiavano nella musica per scappare dalla noia di vivere caratterizzante la cultura grunge, i due francesi iniziarono a sperimentare riuscendo a sintetizzare nella loro musica l’electropop dei Kraftwerk, la disco music di Giorgio Moroder e Marc Cerrone, la musica house: nascono i Daft Punk “il sogno futuristico della techno che si adatta all’ascoltatore occasionale, ma che riesce a stabilire un patto anche con i clubbers più esigenti”, come li definisce Marco Braggion nel suo saggio DAFT PUNK – ICONS AFTER ALL, edito da Odoya.

Il primo singolo di successo The new wave arriva nel 1993, considerato dalla critica il precursore della french touch, la corrente musicale che pone le basi nei rave illegali in Uk negli anni ’90 pregni di musica house e techno; quel suono nuovo si trasferisce nelle feste elettroniche dei capannoni di Parigi, viene rimodellato in qualcosa di più elegante e mixato a basi più aggressive diventando una musica fatta di vibrazioni di bassi, di disco e funk. La consacrazione arriva l’anno successivo, 1994 con il brano Da Funk, inserito poi nel loro primo album Homework del 1996.

Di Homework rimangono alla storia due singoli in particolare, il già citato Da Funk e Around the world, due brani che ancora oggi sono vivi nella cultura musicale elettronica, importanti non solo musicalmente, ma anche visivamente, perché i Daft Punk non hanno mai lasciato nulla al caso, la cura nei dettagli era una priorità. I videoclip dei due singoli sono stati diretti da due maestri del cinema: Spike Jonze e Michel Gondry e questo mix tra musica e arti visive ha accompagnato l’intera carriera del duo francese. Indimenticabile la performance al Coahcella Festival nel 2006 dove i due musicisti si esibirono, sempre sotto sembianza di robot, sul palco con al centro una gigantesca piramide di alluminio alta 7 metri e ricoperta di schermi e luci a led davanti a milioni di spettatori increduli a quello che stavano vedendo. Questa scenografia ha segnato la storia e ridefinito i parametri di tutte le performance live; nel documentario Daft Punk Unchained di Hervé Martin-Delpierre queste immagini sono sicuramente la scena più spettacolare, oltre la piramide con i led che ipnotizza, è incredibile come il pubblico rimasto a bocca aperta non possa fare a meno di filmare con il cellulare ciò che stava accadendo per inviarlo agli assenti. Si, era esattamente il live che a gamba tesa si è prepotentemente preso una fetta di storia della musica.

Le collaborazioni musicali e cinematografiche non si contano, il modo in cui Thomas e Guy-Manuel in questi ventotto anni si sono approcciati alla loro arte è singolare, mai chiusi in degli standard ma aperti a ogni tipo di sperimentazione e contaminazione; nel 2003 sono i protagonisti del film di animazione giapponese Interstella 5555 – The story of the 5ecret 5tar 5ystem, diretto da Daisuke Nishio, Hirotoshi Rissen, Kazuhisa Tachenōchi e Leiji Matsumoto (Capitan Harlock e Galaxy Express 999), basato interamente sull’album Discovery del 2001. Una pellicola senza dialoghi, le uniche parole sono i testi delle canzoni che non solo fungono da colonna sonora, ma sono parte integrante dell’opera. E ancora cinema per i due musicisti francesi che a fine 2010 hanno firmato la loro prima colonna sonora per Tron: Legacy (il sequel del film di fantascienza del 1982) dove partecipano anche con un loro cameo.

Già vincitori di numerosi premi, nel 2013 arriva l’apice della loro carriera: pubblicano il loro ultimo album Random Access Memories che li vede artefici e protagonisti di una geniale campagna marketing, perché i Daft Punk sono anche questo, brand di loro stessi. Sempre nel 2013, oltre a vincere diversi Grammy Awards tra i quali il più importante, Miglior Album dell’anno, e Miglior interpretazione pop per Get Lucky, diventano il nome più richiesto dagli artisti pop: Pharrell Williams, Jay Z e The Weeknd.

Il 22 febbraio 2021 è la data che definisce nel mondo della musica elettronica, e non solo, la fine di un’era; si, perché anche se i Daft Punk non piacciono a tutti, con la loro arte e il loro modo di concepire la musica a 360 gradi hanno modificato il concetto del ruolo dell’artista, sia nell’approccio con il pubblico, ma anche nel rapporto con l’industria discografica. La decisione di “diventare” dei robot è la loro scelta di mostrarsi per quello che facevano, ossia musica elettronica, e ha poco a che fare con l’artista persona; per il duo francese chi fa musica non ha necessità di mostrare quello che rappresenta nella sfera privata, chi ha la fortuna di poter dettare le regole, così come loro hanno fatto per quasi trent’anni, deve avere come priorità la manifestazione dell’arte, spettacolarizzarla. Sono riusciti a capovolgere i principi delle case discografiche che da predatori con i Daft Punk sono diventate prede; se da sempre sono gli artisti a esercitare pressing ai discografici per essere prodotti e distribuiti, Tomas e Guy-Manuel hanno potuto permettersi esattamente il contrario avendo il privilegio di decidere con chi fare musica e rimanendo proprietari dei loro diritti. Non solo, i due francesi sfatano il mito secondo cui il musicista viva di stenti; molto probabilmente la loro fortuna potrebbe essere ricondotta alla posizione sociale decisamente agiata nella quale vivevano; d’altronde perché farsene una colpa? Nascere ricchi non è certo un male, ma non basta per sfondare nella musica, occorre talento, quello legato al genio, e a loro non è mai mancato.

E ci lasciano con la visione di un deserto in cui si sentono le note di Touch, scelta non casuale; già il “contatto”, quello che in questo particolare periodo storico manca: il contatto con la musica, il contatto fisico tra gli uomini. Perché, anche se ci stanno portando a diventare dei robot, come direbbero loro, siamo Human after all.

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