Il fenomeno Hippie, il post umanesimo e la generazione che danzava e vestiva a ritmo di Rock and Roll

by Filippo Mucciarone

Il fenomeno culturale socio antropologico nativo americano Hippie di libertà pace e amore si afferma come controcultura su scala anche oltre oceanica (tra la metà degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso) in un epoca intrisa da una dimensione di “divisionismo etico” (tra maccartismo e guerra fredda tra paesi del blocco Occidentale ed Orientale), quasi a scompaginare la già sconquassata società americana all’indomani dell’omicidio di John F. Kennedy, come a disarticolare quella “glassa gelatinosa” di omologante conformismo tanto in voga nella società americana degli anni ’50, deponendo in favore di una middle class (anche europea) di derivazione o ispirazione beatnick (da beat generation), mentre la nascita e la scoperta del transistor facevano amplificare a dismisura tra le nuove generazioni giovanili una sorta di “tempesta perfetta” in cui danzare e vestire a ritmo di Rock and Roll.

Ogni cogito in questa ingenua e lungimirante perseveranza diventa svelamento inconscio lucido o psicotropo a cavallo della rivoluzione tecnologica e sociale su questa nuova avanguardia culturale e di costume capace di svuotare ed esautorare il paradigma sull’asse spazio luce e colore come se si riavvolgesse il nastro della storia, in una sorta di ricerca spasmodica nella palingenesi di un post umanesimo capace di creare con pullulante effervescenza quell’ondata di nuove predisposizione dei rapporti sociali sulle generazioni dell’epoca e su quelli delle generazioni in divenire capace dunque di creare un trade union tra prime affermazioni artistico culturali del ‘900 (ma anche precedenti se pensiamo al tempo dello scrittore britannico  William Blake) sino a quelle a noi relazionate più vicine se pensiamo ad esempio ai guru storici dell’informatica più globalmente ed attualmente affermata come Steave Jobs o alle menti più controverse ed intuitivamente brillanti dell’allora semi nascente ed ora affermatissima Silicon Valley californiana (prodromo totalizzante col senno di poi della new economy).

Dai vari stati mistici o spirituali di derivazione dharmico passando per l’esperienza psichedelica e di espansione della coscienza “La musica rock divenne la principale forma d’espressione dell’hippie; essa si innestava sul jazz, sul blues e sul rhythm and blues, protendendosi a cercare uscite contemplative nelle barriere di certi stereotipi sonori ormai obsoleti e si aprì alle più disparate forme musicali, assimilandole e trasformandole attraverso gli stati estatici” afferma Giuseppe Gorlani nel suo saggio “Hippie e tradizione tra Oriente e Occidente”.

Allargare perciò l’angolo di comprensione e dell’ascesa del fenomeno della controcultura nomadistica Hippie su larga scala è anche voler assumere eideticamente un arco di tempo che per quanto appena accennato ingloba un periodo invece di circa trent’anni (per ciò che attiene la diffusione e la “regressione” del movimento), difatti dalla metà degli anni ’50 sino alla fine degli anni ’70 quando dopo la chiusura della frontiera in Iran a causa della rivoluzione iraniana del 1979 si andavano via via precludendo le normali  via di passaggio verso oriente che gli itinerari classici di derivazione europea attuavano per le ciurme o i gruppi di Hippie in cerca del proprio “mandala interiore” proprio come –si legge sempre dal saggio di Gorlani- a “Ritrovare l’antitesi natura-città anche nell’opposizione -complementarietà taoismo filosofico – confucianesimo. Il taoista rifuggiva dalle città e dalle corti e, attraverso la non azione, si apriva ad un’azione indefinibile, di natura superiore; il confuciano si dedicava alla politica in senso eminente”.

Un periodo che perciò, anche oltre il “Conflitto generazionale” e tutto quello da esso scaturente in quegli anni spesso caratterizzati da agitazioni sociali e lotte studentesche vede non volere ad ogni costo gli Hippie come “anticristo” dell’epoca odierna moderna e spregiudicata grazie alla sfera di consumo internettiana “interattiva” prodotta dalla stessa new economy.

Un tema certamente di forte impatto ed approccio emotivo e (sempre)  iper generazionale capace di far giungere sin oggi attraverso il filtro elettromagnetico d’emanazione domestica televisiva di alcune reclam esilaranti a tratti, la recalcitrante vena di libertà ed evasione hippie. Hippie.com di Enrico Beltrami (la new economy e la controcultura californiana) ben cerca di svelare questa trama innestata sul fattore di discernimento tra le menti più creativamente “eversive” della nascente silicon valley e la realtà odierna rimestata di cotanta rimodulazione di frequenza. – Dice infatti -“Non è stata la rete che ha permesso la creazione di nuovi business model, ma le articolazioni del pensiero che si svilupparono negli anni sessanta e settanta soprattutto quelli di libertà e auto espressione. La controcultura dei sixties in California fu soprattutto questo: il rifiuto e la contestazione di un ambiente culturale tradizionale, precostituito, istituzionale. Quella controcultura assunse due forme: quella impegnata, politica, che sfociò nel movimento pacifista e dei diritti civici e che si impegnò a cambiare contesto; e quella del disimpegno, dell’esilio della realtà e nella ricerca di nuove forme di aggregazione sociali, che trovò espressione negli hippie e poi nella new age. Ed è proprio questa seconda tendenza che diede poi vita alla grande illusione del rimpiazzo, del nuovo paradigma che prende il posto di quello obsoleto” – rispetto cioè all’economia tradizionale.

La controcultura di derivazione Hippie, la dicotomia silente su un orizzonte d’incidenza pensante, ormai scevra di ogni precondizionamento 68ottino, oltre la “solubile” deterrenza del suo Crow Omaha per citare un sillogismo del grande antropologo strutturalista Levì Strauss, ci permette di compiere-svelare in piena annessione contestuale le personalità e le varie tonalità descrittive deducibili da opere ed eventi topos dell’epoca e non, e delle sfere più trascendenti che si possono celare ed appunto svelare da quel quid in più (pacato sereno tranquillo) che diventa così immortale e poco iroso sulla capacità autoriale attraverso la propria creazione     (al volgere odierno di una complessità travolgente quasi inesplicabile circa la deriva globalizzante di un mondo che sembra galleggiare con tutte le sue guerre e tensioni di sorta come un trofeo appoggiato sull’orlo di un vulcano quasi in eruzione al cospetto invece di una transizione ecologica necessaria per la salvaguardia della specie umana e non solo e che per convesso stenda a democratizzarsi  per evitare una catastrofe climatica imminente).

Hippie allora. Non c’è impedimento oneroso nel “binomio di nomenclatura” a poter mettere sullo stesso piano senza inflazione di genere, l’allunaggio del primo uomo sulla luna con Odissea nello spazio di S. Kubrick. Joan Baez e Bill Haley. Jim Marshall (il fotografo dei cantanti e dei gruppi più acclarati e dei grandi raduni musicali dell’epoca come il Monterei pop festival del ’67 ed del leggendario Woodstock di due anni dopo) con l’omonimo Jimmy Marshall (fondatore dell’amplificazione sonora divenuta status symbol sin dagli anni sessanta con la Marshall Amplification ed ancora oggi leader mondiale nel settore). La teoria futurista di Giacomo Balla ed il suo “vestito neutrale” con la centripeta esplosione policromatica dei tondi di Damien Hirst derivanti dalle serie “Beautiful Painting”. Gli scrittori Edgar Lee Master e David Waster Wallace con Fernanda Pivano. Lo stesso William Blake con Allen Ginsberg. Ambivalenze generazionali aggiunte provenienti dal nostro italico “piccolo schermo” come il Ruggero di Carlo Verdone nel film “Un sacco bello” ed il Quelo di Corrado Guzzanti. Uno dei primi singoli di Elvis Presley “Blue moon in Kentuchy, con la quantificazione di circa un miliardo di dischi venduti dallo stesso autore e cantante dopo circa vent’anni di carriera.

Ovviamente come dimenticare le icone Jimi Hendrix, Janis Joplin Santana Joe Cocker e le band storiche di Woodstock ’69 (forse apice del fermento Hippie) come i The Who, Neil Young, Grateful Dead, i The Clash ed i grandi assenti come i Doors, Bob Dylan, I Rolling Stones, ma soprattutto di The Beatles (che invece tennero proprio nel 1968 ad Haight Ashbury il quartiere di San Francisco dove nacque il movimento Hippie il loro ultimo concerto ufficiale)

Parafrasando un vecchio proverbio indiamo che dice “se fai una cosa con passione sei già ai margini del deserto”, possiamo tranquillamente evincere che in fondo nel profondo di ognuno di noi (o quasi) c’è un hippie.

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